Dare vita alle pietre

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Incontro con Enzo Valentinuz

di Walter Chiereghin

 

Vado a trovarlo nel suo studio, tre stanze su due livelli ricavate in un capannone industriale nella sua Romans d’Isonzo, ai limiti del paese; lui è accogliente, amichevole, una gran barba canuta a compensare la calvizie, i baffi arricciati, molto mitteleuropei, un lampeggiare continuo negli occhi quando parla del suo lavoro, che evidentemente lo appassiona.

 

Enzo, conosco da poco tempo te e il tuo lavoro, che ho incontrato nella primavera dello scorso anno in quella tua notevole mostra sulla Grande Guerra, organizzata dai Musei provinciali in Borgo Castello, a Gorizia. Vuoi iniziare a raccontarti, magari partendo dagli anni della tua adolescenza, o anche di prima, dagli studi che hai fatto?

È presto detto: finite le elementari, mi hanno iscritto alla Scuola d’Arte di Gorizia. A quel tempo non era ancora stata istituita la media unificata e quella mia scuola era in sostanza un avviamento al lavoro…

Perché i tuoi fecero quella scelta?

Per un’indicazione della mia maestra, che aveva insistito con loro perché fossi iscritto proprio alla Scuola d’Arte, in quanto riteneva che avessi una predisposizione, per come mi aveva conosciuto in classe, alle elementari. Fatto sta che la frequentai, e poi seguii anche i corsi dell’Istituto d’Arte, che nel frattempo era stato istituito, dove ebbi come insegnante Cesare Mocchiuti, che arrivò nel 1960, mentre io mi diplomai nel ’65. Nei primi anni di scuola devo dire che non provai un’attrazione particolare per la pittura né per le materie associate ad essa, mentre poi, sotto la guida di Mocchiutti, cominciai a capire molte cose e mi fu chiaro come dovevo agire sulla composizione, sull’organizzazione dello spazio davanti a un foglio bianco.

Mocchiutti, una volta di più, si rivela essere una personalità centrale nella dinamica delle arti visive tra Isontino e Friuli. È stato importante nella tua formazione?

Direi che è stato fondamentale, un autentico Maestro. Io l’ho sempre percepito come un padre artistico, e non solo negli anni della scuola, ma anche in seguito, dopo che ebbi frequentato l’Accademia a Venezia, allievo di Bruno Saetti e Carmelo Zotti. Mantenni i contatti con lui allorché iniziai a esporre, per alcuni anni, alla metà degli anni Sessanta. E quando, trent’anni più tardi, ripresi l’attività artistica, lui cercò in ogni modo di incoraggiarmi e di darmi suggerimenti. In occasione di una mia mostra, impossibilitato a partecipare per ragioni di salute, mandò la moglie, che mi chiese di acquistare un mio quadro. Io avrei voluto farle un omaggio, ma lei insistette per avere l’opera al prezzo che io richiesi, a quel punto, decisamente basso. Quando poi, finita la mostra, andrai a consegnarlo a casa loro, mi fu saldato con un assegno che – scopersi poi – recava un importo doppio rispetto a quanto io avevo domandato.

Devi ancora spiegarmi come mai hai interrotto per circa tre decenni la tua attività artistica: partecipasti a una collettiva a Trieste nel 1973, e il tuo impegno espositivo successivo intervenne soltanto nel 2005. Cos’era successo?

È presto detto. Finito di studiare, al tempo della mia prima stagione creativa, insegnavo disegno e storia dell’arte, ma come supplente. Mi resi conto presto che i pochi soldi che raggranellavo in quella maniera non potevano bastare per mantenere una famiglia con due figlie, e quindi cercai un lavoro che mi offrisse qualcosa di più, in termini economici. Fu così che decisi di smettere di dipingere, e non volli più saperne per tanti anni, assorbiti dal lavoro. L’interesse per l’arte, certo, era rimasto, ma in sottofondo: continuavo a leggere, a informarmi, a vedere mostre, ma senza tentare di riprendere in mano colori e pennelli.

E poi?

Poi, arrivati e superati i cinquant’anni, ho sentito il bisogno di fare di nuovo, di mettere a frutto le mie abilità, poche o tante che fossero, per inseguire un senso più profondo della vita, per verificare cosa fossi capace di esprimere. E ricominciai.

Ricominciasti con grande lena: lavori proprio senza risparmiarti, anche considerando che poi non usi mezzi espressivi troppo tradizionali e rilassanti, ma altre cose che richiedono un impegno anche manuale notevole. Nella prima personale che facesti nel 2005 al Comune di Romans presentasti i tuoi Graffiti

Beh, dovevo ricominciare da qui, dal posto dove sono nato e cresciuto, e poi lo dovevo al Comune che mi aveva concesso l’uso come studio di una ex lavanderia, uno spazio di due metri per otto dove poter lavorare, perché certo agire con intonaci e pigmenti non è certo cosa che si possa fare in casa…

Alcuni tuoi graffiti li vedo qui ora per la prima volta. Sono di grande effetto, con singolari accostamenti cromatici, composizioni astratte… quello che abbiamo qui davanti, ad esempio, ricorda esplicitamente Capogrossi. Non sei tentato da una rappresentazione più realistica, figurativa?

Direi di no, ma in effetti anche quanto produco non è del tutto astrazione, direi piuttosto che si tratta di una figurazione sintetica: in ogni cosa puoi osservare l’evocazione di forme riconoscibili, sia pure in forma di frammenti, sia pure ricomposti seguendo un disegno compositivo più aderente al pensiero, o alla memoria, oppure al sogno che all’osservazione fedele e oggettiva del reale. L’opera cui ti riferisci è del ’65, e già allora cercavo strumenti che mi consentissero di uscire dal piano, dalla bidimensionalità. Poi, come vedi, questo processo si è accentuato con l’uso delle mie pietre del Carso…

Di questo parleremo ancora tra breve, ma prima vuoi dirmi com’è che realizzi i tuoi graffiti, operativamente?

Sono organizzati in più strati di intonaco, anche quattro o cinque, stesi uno sull’altro e pigmentati diversamente uno dall’altro; era una tecnica nuova, che nessuno in precedenza aveva tentato, che prevedeva di impastare nell’intonaco, oltre la sabbia e la calce spenta, anche la colla per piastrelle, che essendo bianca è facilmente pigmentabile, consentendo così un uso flessibile del colore. L’uso della colla, inoltre, rende il supporto meno friabile e quindi più stabile. La sovrapposizione degli strati diversamente pigmentati avviene quando quello inferiore è asciutto , ma non completamente. Una volta completati tutti gli strati, procedo con la tecnica dello spolvero, come si fa per l’affresco, per riportare sulla superficie il disegno precedentemente predisposto e per procedere all’asportazione del materiale in conformità al progetto in precedenza studiato. Su questa tecnica ho realizzato anche laboratori per bambini, alle scuole per l’infanzia e alla elementari,

Veniamo alle tue pietre. Come è nato il tuo ricorso a questo nuovo ambito creativo?

Nella maniera più semplice: passeggiando sul Carso, che fu il teatro delle immani carneficine del ’15-’18, ho avuto modo di osservare come un’enorme quantità di pietre fossero ridotte a schegge, talvolta taglienti, spesso diventate a loro volta proiettili: sono il residuo di massi di calcare più grandi, frantumati dai proiettili delle artiglierie che qui si sono esercitate dalle due parti del fronte. Ognuno dei frammenti che ho iniziato a raccogliere è portatore di quella memoria di devastazione ed ho poi iniziato a organizzarli sulle superfici di fondo, richiamando i loro contenuti simbolici: un caso abbastanza evidente, spero, è quello di disporre i frammenti di pietre carsiche come fossero soldati inquadrati in formazione, o anche corpi di soldati smembrati e dispersi dalle esplosioni e dal fuoco nemico. La mostra che tu hai visto ai Musei Provinciali era, se ricordi, quasi del tutto basata su oggetti costruiti in questa maniera, con le pietre scheggiate del Carso, assieme a poco d’altro, come la grande bobina di filo spinato racchiusa in una gabbia. È stata la mia maniera di ricordare “l’inutile strage”, come pure l’aspirazione alla pace, che mi auguro sia nell’auspicio di tutti.

Questi tuoi frammenti di calcare si trasformano, sotto le tue mani, in strumenti straordinariamente versatili per descrivere, a ben vedere, cose molto diverse tra loro, non soltanto l’angoscia causata dalla guerra, soprattutto quando la esalti con questi tuoi colori primari squillanti.

La pietra offre una particolarità in più rispetto alla pittura, intanto perché consente di eseguire opere dove è evidente lo spessore materico e quindi una tridimensionalità che deborda, prorompe dal piano, e poi perché, soprattutto associata al colore, riesce a presentare in maniera molto articolata quello che si intende esprimere. Anche perché il colore è vivo, anzi è la vita. Nel Gallo arruffato, creato sotto l’influsso dell’emozione per la strage del Bataclan, ho intesa rappresentare quell’esecrata strage usando i frammenti di pietra, perforati a ricordare i proiettili che hanno raggiunto i corpi delle centotrentasette vittime, ma l’uso del colore ha consentito di celebrare con quell’opera anche la tenacia della vita, nella figura di un gallo (simbolico animale della Francia), che se pure sconvolto da quanto era avvenuto, con le penne arruffate si reggeva comunque in piedi, continuava la sua vita contro l’ombra della morte. Non credo che con una tela dipinta ad olio avrei saputo rappresentare meglio quanto, il misto di orrore e di ammirazione, provavo in quei giorni.

 

Mi accompagna alla macchina, e quando ci lasciamo ho la netta sensazione di aver imparato molte cose dalla nostra conversazione, più di quante normalmente mi offre la lettura di un buon libro.