Corsi e ricorsi joyciani

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La lezione di Mauro Covacich su Joyce in scena al Rossetti

di Sabrina Di Monte

 

Dal 4 al 10 novembre scorsi, la Sala Bartoli del Teatro Rossetti di Trieste ha ospitato il ritorno del one-man show scritto da Mauro Covacich, Joyce. Il debutto dello spettacolo, produzione dello Stabile del Friuli Venezia Giulia, era avvenuto lo scorso giugno a Trieste in occasione del Bloomsday 2022. Il 2022 è anche l’anno in cui si festeggiano i cento anni dalla pubblicazione a Parigi della prima edizione integrale di Ulysses, avvenuta il 2/2/1922, giorno del quarantesimo compleanno di James Joyce.

La scena è spoglia, sul pavimento scuro poggia un tavolo di legno chiaro, pieghevole, coperto da fogli, libri, penne e un bicchiere di quella che sembra una pinta di Guinness. Dietro al tavolo una sedia nera dallo schienale arrotondato, in stile Thonet, da bar di una volta, una sedia uguale è un po’ più in là, accanto ad un cavalletto, anch’esso di legno chiaro, coperto di fogli di carta da pacco. Sospesa, in alto a sinistra, una riproduzione della targa che si trova affissa sul muro dell’ultima abitazione triestina di Joyce, in via Bramante 4, che recita: «Ho scritto qualcosa. Il primo capitolo del mio nuovo romanzo Ulisse è scritto. James Joyce. 16 giugno 1915».

Covacich fa un breve excursus della vita triestina di Joyce che trascorse a Trieste circa undici anni. Ci viene ricordata l’abitudine che aveva di sbronzarsi nelle bettole di Cavana, di cui frequentava anche i bordelli. Abitudini che finirono per minare il corpo di quel bel ragazzo alto, dai grandi occhi chiari, che da giovane amava correre nelle gare podistiche in Irlanda e che, come Covacich ci ricorda, partecipò ad almeno una corsa campestre sul Carso triestino. Malgrado la trascuratezza con la quale trattava il suo corpo, proprio dal corpo e dai fenomeni corporali sembrava essere ossessionato: nell’Ulisse si mangia, si beve, ci si ubriaca, si defeca, si fa l’amore, si eiacula, si orina, si partorisce…

A ciascuno dei 18 episodi dell’Ulisse corrisponde un’ora del giorno (sappiamo che il romanzo si svolge nell’arco di una giornata, il 16 giugno 1904); un colore; più di un personaggio dell’Odissea; una tecnica narrativa; ma anche un organo del corpo umano: reni, pelle, cuore, polmoni, esofago, cervello, sangue, orecchio, muscoli e ossa, occhio e naso, utero…

Covacich si concentra su alcuni di questi, e scrive con un pennarello nero sul primo dei grandi fogli, che via via staccherà lasciandoli cadere a terra, alcune parole in stampatello da cui prende spunto per la sua ‘lezione’: ORECCHIO, OCCHIO, BRACCIO, ORECCHIO INTERNO, COSO, LINGUA. Parole che rimandano alla vita personale di Joyce e alla sua opera.

ORECCHIO: la musica, il canto, le lezioni che prese proprio a Trieste, l’ambizione mai realizzata di diventare un tenore di professione; ma anche la musicalità dell’Ulisse, dove spesso a parlare sono i versi di un’aria famosa, le strofe d’una ballata; i giochi di parole infiniti; le onomatopee.

OCCHIO: i poveri occhi di Jimmy: cosi grandi e belli quando era giovane, con gli anni si ammalarono molto probabilmente a causa di una malattia contratta sessualmente. Joyce soffrì di numerose e gravi infiammazioni agli occhi, di cataratta e di glaucoma, e dovette essere sottoposto a ben undici interventi chirurgici. Leggere e scrivere divennero un’impresa titanica. Scriveva anche fino a 16 ore al giorno, spesso a pancia in giù, sdraiato sul letto e vestito di un camice bianco che rifletteva la luce sulle pagine.

BRACCIO: inteso come forza lavoro. Il lavoro di Joyce a Trieste era insegnare inglese, ma lo considerava «un maledetto impiccio» che sottraeva tempo alla scrittura, e fu un sollievo per lui quando, grazie soprattutto ad un generoso lascito, poté smettere di insegnare. Eppure è proprio con uno dei suoi ‘allievi’, il signor Hector Schmitz, alias Italo Svevo, che instaurò un’amicizia che durò negli anni e fu proficua per entrambi. Tra le loro due famiglie c’era però un’evidente distanza sociale e questo fece sì che la loro fosse un’amicizia definita da Covacich «a corrente alternata». Svevo apparteneva alla ricca borghesia triestina, e aveva aiutato spesso Joyce, sempre senza un soldo.

Braccia erano anche quelle di Nora (Nora Barnacle, la compagna di Joyce di una vita) che a volte stirava per la signora Livia Veneziani, moglie di Svevo. Nora però ricordava anche che la signora Veneziani, quando la incontrava per strada a Trieste, evitava di salutarla.

Poi accadde che nel 1922 La Coscienza di Zeno fosse accolta con la stessa indifferenza che era stata riservata ai due primi romanzi di Svevo. James Joyce risiedeva ormai a Parigi: era l’anno di pubblicazione dell’Ulisse. Comunicò a Svevo che La Coscienza era la cosa migliore che avesse mai scritto e la fece conoscere nei circoli culturali francesi e europei. Il resto è storia.

Joyce rese poi Livia Veneziani immortale, regalando il suo nome ad un personaggio del Finnegans Wake: grazie alla sua fluente capigliatura, la moglie di Svevo fu presa a modello per Anna Livia Plurabelle, personificazione del fiume «biondo» che passa per Dubino, la Liffey. E questo dopo aver già modellato il protagonista dell’Ulisse, l’ebreo convertito Leopold Bloom, proprio su Svevo.

ORECCHIO INTERNO: Grazie alla tecnica del ‘monologo interiore’ entriamo nella mente del personaggio, dove un pensiero, uno stimolo o un incontro fanno nascere libere associazioni. Così ci ritroviamo a pensare, a vedere e a sentire quello che Leopold Bloom vede, pensa e sente mentre girovaga per Dublino. Dublino, luogo verso il quale l’esperienza interiore di Joyce tende continuamente, ci viene offerta ad ogni lettura come esperienza immediata, del qui e ora.

COSO: Nell’ Ulisse, molti e di diverso genere sono i riferimenti ai genitali maschili e femminili. Covacich ci ricorda che il «coso», la «cosa», ma anche «Mona» («l’isola di Mona», il brigantino «Mona») sono termini che ricorrono.

James Joyce è stato spesso accusato di maschilismo, eppure, ricorda sempre Covacich, se Ulisse fu pubblicato a Parigi nel 1922, lo si deve a una giovane donna, l’americana Sylvia Beach, e alla sua compagna. Nel quindicesimo episodio, Circe, la trama è spesso interrotta da allucinazioni: ad un certo punto Bloom si fa addirittura donna e partorisce otto figli.

Lo stesso monologo di Molly/Penelope sembra scritto da una donna, libera, calda, senza pudori, piena di energia vitale. Covacich a questo punto ricorda le parole di Enrico Terrinoni, per il quale il monologo di Molly è la fine dell’Ulisse, ma potrebbe essere l’inizio. Terrinoni è autore di una traduzione molta fortunata dell’Ulisse che ha il pregio di essere la prima presentata come testo a fronte dell’originale (Bompiani 2021) ed è quella che Covacich usa – sia in italiano che in inglese – per le sue brevi letture esemplari.

LINGUA: lo sperimentalismo anche multilinguistico di Joyce si fa estremo con Finnegans Wake. Dopo la giornata di Bloom arriviamo al ‘libro della notte’ di Finnegans. Testo difficilissimo, composto tra il 1922 e il ’39, all’interno del quale gli studiosi hanno contato fino a sessanta lingue diverse. Il titolo sta a significare veglia funebre, ma anche risveglio, rinascita. Covacich ricorda l’influenza di Vico sull’opera di Joyce e scrive su uno dei grandi fogli, citando il Finnegans: ‘ORDOVICO OR VIRICORDO’, gioco di parole che echeggia il tempo circolare della teoria vichiana.

Nel Finnegans c’è un uso estensivo di quelle che vengono chiamate «parole baule». La parola «baule» nasce dalla fusione di due parole diverse. Covacich ne dà alcuni esempi presi sempre dal Finnegans Wake: battlefield diventa BLUDDLEFILTH (parola «baule» che per assonanza richiama il sangue, blood, e il sudiciume, filth) o Dublin, che diventa DYOUBLONG, simile per assonanza a Do you belong (here)? E cioè “appartieni a questo posto? Sei di qui? Ne senti l’appartenenza?”. Dublino, lasciata da Joyce da giovane, amata, odiata, fulcro della sua esperienza, anche da lontano, soprattutto da lontano, è la sua visione interiore, il centro di tutto il suo lavoro.

Si dice spesso che l’opera di Joyce, e soprattutto il Finnegans Wake, sia destinata ad essere letta ad alta voce e conosciuta attraverso la sua dimensione sonora. E la lezione-spettacolo di Covacich termina con l’ascolto di una rara registrazione della voce di James Joyce che legge un frammento del Finnegans Wake. La sua voce tenorile ci raggiunge dal passato, voce da cieco, ma ancora enfatica e melodiosa, che recita con accento irlandese: «Ordovico, or viricordo. Anna was, Livia is, Plurabelle’s to be».

La lezione ha avuto successo: alla fine il pubblico ha ringraziato con lunghi e calorosi applausi.

 

Alex Ehrenzweig

James Joyce

fotografia

Zurigo, 1915