Cascio, l’universo delle emozioni

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Il fotografo siciliano in una grande mostra al Museo di Roma in Trastevere

di Michele De Luca

«Il Mondo» di Mario Pannunzio «a quei tempi per un fotografo significava una nicchia di prestigio, uno status del quale fregiarsi. Le foto che apparivano sul giornale quasi sempre raccontavano qualcosa e qualche volta erano un racconto con i personaggi centrali, quelli di contorno e una loro ambientazione. In ogni caso, pur essendo il frutto di un’intuizione da centesimo di secondo, la storia narrata aveva un suo ‘passato’ e un suo ‘dopo’. Ma erano tutte pur sempre delle foto politiche (o mi apparivano tali?) per via di una denuncia frutto di una morale che veniva da lontano ed è ancor oggi progetto e illusione». Così il fotoreporter Calogero Cascio (Sciacca, Agrigento, 1927 – Roma 2015) raccontava nel prezioso libro Il mondo dei fotografi. 1951 – 1966 edito nel 1991 dall’Archivio fotografico Toscano la sua collaborazione al prestigioso settimanale, approdo ambito da tanti fotografi poi diventati famosi, tra cui Gianni Berengo Gardin, Piergiorgio Branzi, Romani Cagnoni, Cesare Colombo, Caio Garrubba, Enzo Sellerio, i fratelli Antonio e Nicola Sansone.

All’opera del fotografo siciliano è dedicata la prima grande retrospettiva al Museo di Roma in Trastevere, intitolata “Calogero Cascio. Picture Stories, 1956 – 1971” (ma perché questo inglese?), curata da Monica Maffioli con la collaborazione di Natalia e Diego Cascio (catalogo Silvana Editoriale con testi anche di Ferdinando Scianna e Francesco Zizola), promossa dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con l’organizzazione di Zètema. Il percorso espositivo ripropone, attraverso oltre cento tra stampe fotografiche originali d’epoca e stampe recenti da negativi originali, il suo impegno e la qualità professionale nel testimoniare un racconto visivo di quasi vent’anni di cronaca e di storia.

Le sue sono immagini di grande efficacia evocativa, nel segno della fotografia documentaria ma anche “umanista”, che negli anni Cinquanta indaga il Meridione italiano, con una “passione civile”, che trova nella fotografia lo strumento per rivelare con lucidità intellettuale la realtà che si presenta allo sguardo. Spesso accompagnati da suoi testi, i servizi fotografici di Cascio trovano spazio nei più importanti quotidiani e periodici americani ed europei degli anni Sessanta e Settanta come «New York Times», «Life», «Look», «Stern», «Paris Match» e, in Italia, oltre al già citato, «L’Europeo», «La Stampa», «Paese Sera», distinguendosi per la loro volontà di denuncia delle diseguaglianze sociali, della condizione degli “sconfitti” da parte di una società priva di umanità nei confronti degli ultimi. Come ben ci dice la curatrice, Monica Maffioli, «ciò che più interessa Cascio non è la documentazione dei luoghi, degli aspetti naturalistici o monumentali, né le testimonianze di costume o di cronaca, ma la ricerca, nelle diverse condizioni della vita dell’uomo, dell’universalità delle emozioni. Il suo sguardo mette quasi sempre in primo piano una figura umana, un bambino come un anziano, un soldato come una principessa, cercando di catturare le espressioni dei loro volti, le tracce dei sentimenti che solo gli occhi possono sinceramente esprimere, superando ogni barriera di pudore o di aggressività, complice solo l’apparecchio fotografico. Le sue fotografie, dunque, assumono significati plurali e, a seconda di come Cascio mescola le ‘carte’, possono raccontare storie diverse da proporre alla stampa italiana e straniera, piuttosto che arricchire progetti editoriali ed espositivi curati dallo stesso autore».
Nel 1963 scriveva di lui sulla mitica rivista «Popular Photography» Piero Racanicchi: «La sua intelligenza visiva lo porta verso uno stile narrativo sciolto e scorrevole, fatto di impressioni e di riflessioni, che punta al nocciolo delle cose, scarta le situazioni marginali, affronta gli argomenti con immediatezza, di fronte, senza concedere nulla alla fantasia e al descrittivismo». Era fatto per un lavoro da libero professionista, vendendo i servizi alle agenzie internazionali, ma scegliendo lui i luoghi dove recarsi per i suoi
reportage. Come viene giustamente riconosciuto, seppe andare nel suo lavoro oltre lo sguardo distaccato e spesso acritico dei fotoreporter americani da una parte, e dall’altra oltre quello “buonista” degli umanisti francesi, ma intraprendendo una via più originale legata alle nostre tradizioni civili e culturali. Nel 1971 improvvisamente smise di fotografare; «C’è una stanchezza di base – si giustificò – contro la quale ormai è eroico lottare usando lo strumento mio e cioè la macchina fotografica». Come si legge nella bella testimonianza di Ferdinando Scianna, Cascio «era molto amareggiato. Il suo carattere non lo aveva aiutato a storicizzarsi e a valorizzare la sua opera. Di indole solitaria, come tutti i reporter, non frequentava molto, soprattutto il mondo della fotografia. Ma questo non giustifica la colpevole distrazione altrui su un corpus di lavoro davvero straordinario di cui questa mostra è la formidabile e spero l’inizio di una necessaria quanto giusta valutazione … La cosa che più impressiona è tuttavia la qualità estetica delle sue fotografie, la sua cultura cosmopolita, non solo visiva». Francesco Zizola, citandolo, ricorda quello che può essere considerato il suo “testamento” sul modo di pensare e praticare la professione di reporter: «è con umiltà tattica ed elasticità strategica che deve essere intrapresa e condotta la professione di reporter, non tanto per essere disponibili ai cambiamenti inevitabili di alcuni elementi semplici (i costi, i mercati editoriali, le tecniche, ecc,), quanto perché bisogna sempre presagire – e mai temere – la più importante delle variabilità: quella che è dentro di noi».

Calogero Cascio

Mumbai

India, 1960