Bazlen secondo Calasso

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di Fulvio Senardi

 

Sembra il risultato di un curioso incrocio di destini il fatto che l’ultimo libro di Roberto Calasso, che ci ha lasciati nel luglio di quest’anno, sia dedicato a Roberto Bazlen (Bobi, Adelphi 2021). Un gesto d’addio modellato sulla silhouette del personaggio fra i più sfuggenti ed enigmatici del Novecento letterario italiano. Ombre che si inseguono. Figura misteriosa di intellettuale schivo, pressoché sterile quanto a pagine scritte, Bazlen è stato però attivo con un ruolo cruciale dietro le quinte  dell’attività editoriale, tanto che Calasso può affermare, senza tema di smentita, che «l’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi» (66).

Un irresistibile polo d’attrazione, d’altronde, questo reticente triestino, per più generazioni di narratori e saggisti ansiosi di misurarsi con un tema assolutamente intrigante per quanto è permeato dal pathos dell’oscuro: parecchi anni fa Calasso ebbe a scrivere che «di Roberto Bazlen sarebbe arbitrario dire che cosa pensasse; resta la certezza che la sua presenza costringesse altri a pensare». Data questa premessa, è ovvio che il disvelamento non può che svolgersi lungo i frastagliati margini, esistenziali e letterari, di un personaggio che si è dato, in quel poco che di lui possiamo leggere, per «trafitture di fulmineo effetto» (74). Ci si è provata, riportando i frammenti e le testimonianze a un quadro interpretativo solido e plausibile, Giulia de Savorgnani (Bobi Bazlen. Sotto il segno di Mercurio, LINT, Trieste 1998), con meno successo, in termini esegetici (ma mietendo molti immeritati plausi) Cristina Battocletti (Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, La nave di Teseo, Milano 2017) che predilige, nel suo sfarfallare gremito di mende e approssimazioni, il pettegolo versante del Bazlen uomo.

E Calasso? La riflessione si snoda per medaglioni inframmezzati da molti spazi bianchi – segni di un’apertura sull’“altrove” che, allusiva e fin provocatoria, fa indiscutibilmente parte dell’“aura” Adelphi – prendendo le mosse dal ricordo di un primo avvicinamento che è stato insieme intellettuale ed esistenziale: «“Il cugino Bobi”: per me quel nome aleggiava già da tempo nei discorsi di Giorgio Settala. […] Presto diventò la persona che più desideravo conoscere in quel luogo ignoto che si chiama Roma» (11). Dire Bobi è però dire Trieste, un vischioso e anch’esso indecifrabile retroterra che in parte completa la fisonomia dell’uomo, là dove il ritratto, del suo, perde colore: «una gabbia malefica, e talvolta “una vita infame” dove si mescolavano gli incontri decisivi (Svevo) e una famiglia composta da sole donne (il padre era morto quando Bazlen aveva tre anni)», (33). La città dove ventitreenne il giovanotto coltissimo ma disorientato inizia la Lotta con la macchina da scrivere (pubblicata da Adelphi in edizione fuori commercio nel 1994), un brogliaccio che Calasso assegna al 1925, e Savorgnani collega al tentativo di Bobi di diventare un “uomo pratico”, esercitandosi, alquanto goffamente, nella dattilografia.

C’è poi Milano, dove Bobi si colloca vicino agli Olivetti, dopo l’abbandono della città natale con una fuga gravata da un doloroso non detto psicologico («una querula madre/ legata a triplo filo a un figlio in fuga», ha scritto Montale che su Bobi la sapeva lunga). Una terra di mezzo per l’Ulisse che cerca, su sfocati orizzonti, una sua Itaca ancora senza nome: l’“odissea” raccontato da Calasso mettendo in gioco un mannello di aneddoti, il genere per eccellenza centro-europeo in cui Bazlen sbizzarriva la sua intelligenza a-sistematica e la sua vena dissacrante. Importante il rapporto con Montale (Eusebius, nella personale onomastica bazleniana), che Calasso legge schierandosi, con enfasi probabilmente eccessiva, dalla parte di Bobi in quel sodalizio che in realtà non fu mai, se non entro la normale dialettica relazionale, contrappositivo (Montale «scivolava nella distorsione dell’evidenza» (63); Montale «quanto più si sforzava di omaggiare Bazlen, tanto più lo denigrava» (ivi); Montale formula qualche «impropria domanda» (97).

E siamo infine all’Adelphi, approdati su quella terra ferma dove Bazlen erige (autoironico?, dogmatico?) i suoi grandi totem, trasformandoli in (generalmente fortunate) scelte editoriali: in primo luogo la «primavoltità» (sinonimo, potremmo dire, di originalità), la capacità di un libro cioè, perché di questo si tratta, di superare i confini tradizionali aprendo lo sguardo su terreni nuovi, oltre l’Occidente, oltre le ideologie: il Tao, i Ching, gli scrittori eccentrici o devianti. Arcipelaghi esclusi dalle carte stellare dell’universo letteratura e di cui Adelphi aveva l’ambizione di tracciare la prima mappa. Una casa editrice dunque, nei limiti concessi da relazioni rispettose e paritarie con i collaboratori, espressione diretta e fedele dell’apertura curiosa e rizomatica di un intellettuale-guida verso il diverso e l’ignoto; che modellava il suo mondo (anche nell’estrinsecazione editoriale) così come aveva inventato un suo viaggio nella vita: «Bazlen l’aveva fondata su un irrimediabile non sapere, esposto alle onde in ogni direzione. Era stato il suo modo di diventare vivo» (corsivi nel testo, 97).

Qualche esempio, per non restare nel vago? Jung a preferenza di Freud – su cui Bazlen scrive, nel segno del binomio genialità-unilateralità, un’intelligente paginetta che Bobi riporta – spingendosi magari fino ai margini della para-psicologia. E, aggiunge Calasso, la volontà di andare oltre le dispute (corsivo mio) che tenevano campo nell’Italia del Dopoguerra («Più o meno per tutta l’Italia dopo il ’45 la bestia nera era l’irrazionale. Mentre Bazlen ignorava quelle dispute. Pensava che fossero una perdita di tempo. Preferiva parlare di ciò che si riconosce già dal suono. Era quello il punto decisivo», 77). È evidente che con “irrazionale”, un termine che appare oggi alquanto difficile da maneggiare, l’Italia dell’impegno intendeva il fascismo, il movimento ed il regime che avevano dato corpo a un’idea reazionaria dell’uomo e della società, creando miti attivistici che invitavano alla violenza e alla sopraffazione, esaltando il culto della razza, delle gerarchie e dell’uomo solo al comando, colui che ha sempre ragione e di fronte al quale occorre piegarsi con cieca obbedienza nella sospensione di ogni capacità critica. Del resto se il fascismo veniva considerato come un’«immensa farsa» (80), e non – ciò che effettivamente è stato – un regime criminale apportatore di morte, il noncurante voltarsi altrove degli “adelphiani” appare logico e giustificato; un trionfo del buon gusto.

E la serpeggiante accusa di snobismo che ha accompagnato Adelphi per tutta la sua esistenza? Qui, fra lo Scilla e il Cariddi delle pratiche demagogiche della retorica e dell’anti-retorica («un gregge antigregge che reagisce contro il mondo prefabbricato», 86) il discorso dell’ottantenne Calasso rischia di calcare anch’esso il terreno affollato di un manierato contemptus mundi: tra masse eterodirette tanto nell’approvazione che nella protesta, in un mondo sconvolto dallo «tsunami informatico» che mira a «strappare lo scalpo al cervello umano» (93), resterebbe valido, a prescindere da tutto, il «potente contravveleno» (94) di cui Bobi ha dato esempio. «Parlavo di lui», confessa Calasso verso la fine del libro, «come di uno “sciamano travestito in abiti borghesi”. Lo penso tutt’ora. […] Oggi eviterei con rammarico la parola sciamano. Il mondo non sa più contenerla. Direi soltanto che Bobi era la persona più veloce nel vedere il “dettaglio luminoso” (Pound) che abbia avuto la fortuna di incontrare» (89). Ma dettaglio di che?, se è lecito chiedere.

 

Roberto Calasso

Bobi

Adelphi, Milano  2021

  1. 97, euro 12,00