Anche prima del Covid 19
storia
Un’imponente ricostruzione del ruolo decisivo e paradossale delle malattie nello sviluppo delle civiltà umane
di Gabriella Ziani
Nel 1900 eravamo 1,6 miliardi su questo pianeta, oggi siamo quasi a quota 8, ma non è che abbiamo preso a «riprodurci come conigli», semplicemente – dopo molti secoli di terrificanti battaglie contro ogni sorta di malattie sterminatrici – «abbiamo smesso di morire come mosche». Il Covid 19 ci ha ricordato la dura lezione: l’essere umano è la tavola imbandita di virus, batteri, protozoi e vermi che esistono da milioni di anni, usano strategie sofisticatissime e spregiudicate per invadere il nostro corpo succulento e farne straccio. Essi stessi frutto di durissima selezione naturale, hanno sempre approfittato delle nostre evoluzioni (e involuzioni) per mangiarci di più e meglio e lasciare su lande desolate, spopolate, i resti annichiliti di intere generazioni. Un autentico, terribile sterminio. Peste, febbre gialla, colera, tubercolosi, malattia del sonno, vaiolo. Ci vuole umiltà per ammettere che questi invisibili killer sono sempre stati più forti di noi e magari sopravviveranno alla nostra specie, ed è proprio a una consapevole umiltà che invita lo storico Kyle Harper nell’enciclopedico studio intitolato Contagi. Le malattie e il corso della storia umana. Umanista di professione (insegna Lettere classiche all’Università di Oklahoma), e già autore de Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Einaudi 2019), Harper ha iniziato nel 2017 questo studio enorme – che indaga su scala planetaria biologia, storia, demografia, economia, ecologia ambientale, conquiste territoriali e scientifiche –, e si è trovato a terminarlo nel 2020 in piena pandemia da Covid: quando si dice azzeccare il momento. Conclusioni amare: «Il mondo è dei microbi. Noi ci viviamo soltanto».
Si contano circa 3000 agenti patogeni, di cui 236 pericolosi. Le peggiori malattie (vaiolo, morbillo, febbre gialla, Aids, Ebola, Covid) sono causate da virus. Di batteri ne sono stati contati circa un trilione, ma patogeni per noi sarebbero solo 73, già abbastanza se provocano colera, difterite, tifo, febbre tifoide, scarlattina, framboesia, sifilide, peste bubbonica e tubercolosi. I protozoi cattivi sarebbero solo 21, ma portatori di malattie tremende veicolate da insetti come mosche (che possono ospitare milioni di batteri) e soprattutto temibili zanzare, «vampiri con le ali» secondo Harper, di cui esistono 3500 specie, la Anofele angelo della morte perché distribuisce la malaria. Non da meno i roditori, notoriamente i corrieri della peste, che dimezzò la popolazione europea nel ’300.
Il concetto di base è che se il nostro antenato Homo erectus (che 1,5 milioni di anni fa scoprì il fuoco, prima rivoluzione energetica) si fosse accontentato del cibo che aveva a portata di mano, e fosse rimasto fermo là dove stava, nulla sarebbe accaduto. Invece nasceva una razza tutt’altro che pigra, anzi: esploratrice, vorace. Uno dei paradossi che lo storico sceglie per ribaltare certe facili tesi è che il primo passo fatale per l’umanità fu l’invenzione dell’agricoltura, «un brancolare verso il disastro». La gente mangiava sempre le stesse cose, si indeboliva, nascevano conflitti per proprietà e cibo, i nuclei stanziali producevano scarti, gli allevamenti creavano contiguità animale, di conseguenza marciumi, deiezioni, affollamento, sporcizia, sterco dappertutto e anche bruciato per scaldarsi: una bella festa per una grande gamma di germi. I germi, avverte lo storico, «sono il prodotto della nostra storia, e la storia è plasmata dalla battaglia contro le malattie infettive», in un equilibrio sempre pericolosamente instabile. Abbiamo inventato le città, le navi, i commerci su scala globale, le ferrovie, lo sfruttamento intensivo del suolo, le fabbriche malsane, le armi e le grandi guerre, la schiavitù, l’imperialismo, e prima di tutto siamo andati in cerca del Nuovo Mondo. La colonizzazione dell’America centrale e poi del resto dell’immenso territorio oltreoceano fu la causa del genocidio delle popolazioni native stroncate da nuove malattie, ma le malattie furono rese più aggressive dallo sfruttamento cui gli europei, avidi per aver trovato l’oro, sottoposero quelle genti inermi. Osserva lo storico che fu più letale lo sfruttamento di indigeni e schiavi che la pandemia stessa: erano coatti, malnutriti, indeboliti, impoveriti, ammassati, socialmente disgregati. Il processo fu letale anche per i coloni europei, sterminati in massa nella terra conquistata. I parassiti si adattano ai nuovi ambienti che noi creiamo, agli ecosistemi che distruggiamo «senza pietà», e la devastazione biologica interagisce in andata e ritorno con gravi ripercussioni sugli stessi assetti (sociali, politici, economici, demografici) della civiltà umana, che è stata “globalizzata” ben prima che noi oggi considerassimo globalizzata la nostra epoca.
Tenendo dunque assieme storia delle civiltà, storia delle malattie, storia della medicina e soprattutto storia della fisiologia, degli usi e costumi di virus, batteri, protozoi e vermi, e basandosi sulle nuove scienze genetiche che studiano il Dna di questi infidi corpuscoli (anche di campioni archeologici), Harper compie un poderoso lavoro di convergenza tra discipline diverse, mostrandone le connessioni, e come risultato la nostra minorità e debolezza rispetto agli agenti delle malattie infettive, dimostrata da una impressionante quantità di numeri e percentuali. «Questa corsa adrenalinica a nuove informazioni porta con sé – dice lo storico – varie incertezze; spesso, infatti, la cosa più impressionante che apprendiamo è la vastità della nostra ignoranza». Scoprire che i vermi che causano tuttora Schistostomiasi a circa 200-400 milioni di persone al mondo sono apparsi come parassiti in Asia 60-70 milioni di anni fa, e quelli che provocano la filariosi linfatica (tuttora 40 milioni di casi ai Tropici) datano a 50 milioni di anni fa ci mostra quanto sia relativa la nostra esistenza, con tutta la sua potente e prepotente e dolorosa storia.
Lasciando al lettore curioso (non laureato in Virologia) di scoprire tutti segreti dei minuscoli attaccanti, c’è un altro punto focale per cui questo libro eccelle: nella dimostrazione plastica di come ogni nostra mossa apparentemente evolutiva, espansiva e modernizzatrice ci abbia rovesciato addosso disastri sanitari per lungo tempo impossibili da combattere, sofferenze umane indicibili, superstiti impoveriti e stremati, carestie, calo demografico, nuove guerre e dunque nuovi cicli infettivi.
La peste (dal batterio Yersinia pestis), già apparsa a Roma nel I secolo d.C, dilagò attorno al 1000 attraverso le conquiste dei Mongoli, che si cibavano di marmotte (veicolo, come i topi). Nel ’300 la Morte nera, tanto studiata, spazzò via metà della popolazione europea, fu la più dirompente epidemia del genere umano, ma la prima vera epidemia è sempre targata Roma: risale al 541 d.C, epoca delle conquiste, e fu una apocalisse.
Ragionando da storico, Harper dimostra che le drammatiche conseguenze sanitarie di ogni intrapresa umana non sono mai state solo «un deplorevole incidente». A ogni equilibrio violato se ne violava di seguito un altro. Il drastico calo demografico nella nuova America privò i coloni di manodopera, e subito arrivò la brillante idea di deportare gli africani. La tratta degli schiavi fu un’altra autostrada di germi. Nel XVI secolo planò l’influenza in Europa e nel Nuovo Mondo: «Fu la prima pandemia globale». Poi ecco il vaiolo, che ridusse i messicani da 8-10 a tre milioni. Così andò in fumo l’impero Inca (tifo, difterite, vaiolo). Nella regione amazzonica del Brasile l’arrivo degli europei è definito dallo storico «un mattatoio». Là c’erano già i Gesuiti a convertire i poveri autoctoni, e con buona volontà costruirono villaggi per soli bambini. Volevano salvarli, ma fu «un campo di sterminio». Di 60 mila indios convertiti ne restarono vivi alcune centinaia. Male anche le incursioni in Africa. Dei portoghesi che si spinsero in Gambia, «più di un quarto ci lasciava la pelle» (malaria, febbre gialla, dengue e altre terribili cose). Degli inglesi che raggiunsero il New England morirono 6454 su 7554. Della Carolina si diceva: «Se vuoi morire vai lì».
Ma anche in Europa l’azione umana provocava distruzione. La Guerra dei Trent’anni (1618-’48) fu una catastrofe umanitaria, una manna per pulci e pidocchi. Secondo Harper morirono in battaglia 450 mila soldati, ma il triplo morì di malattia, e le popolazioni devastate diminuirono del 30-50%. «I conflitti umani – scrive lo storico – garantiscono il dominio dei microparassiti». Peraltro la situazione igienica delle sempre più grandi metropoli in Europa e in Oriente era spaventosa anche in tempo di pace, e più la società si organizzava con fabbriche, caserme, ospedali, caseggiati popolari, porti, più i germi celebravano il banchetto. Fu proprio nel ‘600 che scoppiò un’altra pestilenza, straziante. Famosa la peste di Londra, famosa la peste di Milano (ben rappresentata nei Promessi sposi di Manzoni), ma dilagante anche in Cina, India e Impero ottomano. Ci fu una recrudescenza del vaiolo, che colpì duramente anche la corte asburgica e quella inglese, dove fu a causa dei morti regali che la corona degli Stuart passò agli Hannover, mentre si deve alla famosa Lady Mary Montagu la campagna per l’inoculazione del vaccino e al medico-scienziato Edward Jenner di averlo reso pratico e sicuro. L’Inghilterra era al top, ma la grande scoperta era stata dei cinesi. L’800 aveva in serbo il colera, che si abbatté con sette pandemie globali. Poi fu il turno delle drammatiche influenze di origine aviaria (asiatica, spagnola), della poliomielite, dell’Aids causato da Hiv, un virus migrato dallo scimpanzé all’uomo.
Caso curioso, anche l’uomo ha passato qualcosa agli scimpanzè. Nel 1999 in Costa d’Avorio una intera colonia di scimmie sotto osservazione si ammalò di un virus respiratorio umano, per noi innocuo, e un esemplare su cinque morì. Era avvenuto uno spillover, un passaggio da una specie all’altra, stavolta da uomo ad animale. Incidente che al virus non conviene, se l’ospite muore si chiude la catena riproduttiva. L’operazione è dunque autolesionistica per la conservazione della specie, eppure è proprio quello che è successo nel 2019 col Covid, lo spillover tra pipistrello (così pare assodato) e uomo. Poi l’aggressivo coronavirus è mutato, la mortalità umana è al momento residuale: gli siamo più utili da vivi. Fino alla prossima volta…
Harper chiude plaudendo alle conquiste odierne, alle gigantesche pratiche di igienizzazione, alla «meravigliosa scienza», ai vaccini, alla mobilitazione mondiale della sanità pubblica e degli Stati che hanno messo quanto più possibile sotto controllo una pandemia che ci eravamo illusi di non vedere mai più. Nel suo stile fluido, narrativo, condito qua e là di battute e paragoni un po’ leggeri, spesse volte si è trovato a scrivere «ma il peggio doveva ancora venire». Per fortuna non sono queste la parole finali del libro.
Kyle Harper
Contagi. Le malattie
e il corso della storia umana
Traduzione di Luigi Giacone
Torino, Einaudi, 2023
- 771, euro 40,00