Alice nelle città, un viaggio alla ricerca di se’

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di Stefano Crisafulli

 

‘Non è mai uguale a quello che si vede’, dice Winter, alias Rudiger Vogler, il co-protagonista del film di Wim Wenders Alice nelle città, guardando una Polaroid appena sviluppata di una stazione di servizio americana. Alice in den stadten, questo il titolo originale dell’opera uscita in bianco e nero nel 1973, è il primo e forse più riuscito tassello di una trilogia che proseguirà con Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1975), la cosiddetta trilogia del viaggio, di cui ho già parlato in un altro articolo. Ma la riproposizione di Alice nelle città al cinema Ariston di Trieste, il 29/7, all’interno della meritoria rassegna estiva ‘Cult movies’ organizzata dalla Cappella Underground, che ha voluto festeggiare così i suoi cinquant’anni, mi ha offerto lo spunto per analizzare questo film in modo più specifico.

Ci sono, innanzi tutto, i non luoghi, così chiamati dall’antropologo Marc Augé perché caratterizzati dal loro anonimato e dall’essere soltanto punti di passaggio, come gli aeroporti. Winter, che non è un fotografo, ma un giornalista, decide che per descrivere la provincia americana più profonda bisogna usare l’immagine, non la parola. Per questo se ne va in giro con l’automobile, fotografando con la sua Polaroid tutto ciò che gli capita a tiro, anche se non è rilevante o piacevole: si susseguono, dunque, motel, distributori di benzina, camere d’albergo, che vengono immortalati da Winter, quasi replicando i soggetti dipinti dal pittore americano Hopper e, come lui, registrandone la desolazione e il vuoto. Un vuoto che però è anche dentro di lui, tanto che una sua amica, a New York, gli dirà che le foto servono a testimoniare la sua presenza in quei (non) luoghi e ad esorcizzare una mancanza d’essere.

Ma Winter, come abbiamo detto, è il co-protagonista, perché, oltre ad essere un giornalista squattrinato (all’inizio del film viene pure licenziato) diventerà anche, suo malgrado, una figura paterna provvisoria. Infatti dovrà accompagnare Alice, una bambina di nove anni abbandonata (temporaneamente…) dalla madre in un hotel di New York, a casa della nonna, in Germania. Entrambi, comunque, sono spaesati, nel doppio significato di senza radici (almeno fino alla parte tedesca del film) e con una buona dose di confusione esistenziale: Winter, perché non trova più sé stesso, la bambina, perché si sente abbandonata dalla madre e affidata ad un perfetto sconosciuto. In realtà i due impareranno a conoscersi e a raggiungere un certo grado di complicità, proprio grazie al movimento continuo e al viaggio che da New York li porterà ad Amsterdam e poi a Wuppertal, in Germania, per concludersi nei distretti industriali della Ruhr. L’inversione di tendenza per Winter è visibile in una scena in cui è Alice a fotografare lui ‘così vedi come sembri’, ovvero, fuor di metafora, può riconoscersi e quindi recuperare il senso di un’identità perduta.

Ma che cos’è una foto? In fondo, è solo un’immagine della realtà e non può restituire la realtà così com’è, né così come viene soggettivamente percepita. Lo dice, appunto, il protagonista nella frase già riportata nell’incipit: ciò che si vede nella foto ‘non è mai uguale a quello che si vede’ con gli occhi, perché l’immagine soggettiva non è esattamente uguale alla (presunta) immagine oggettiva che viene emessa dalla macchina fotografica. Come se ci fosse un gap tra strumento sensoriale e tecnologico. Inoltre la foto immobilizza la realtà, che invece è in continuo movimento. Ed è forse questa la caratteristica più interessante per Wenders: il fatto che il cinema sia una rappresentazione della realtà, come la fotografia, ma col vantaggio di mostrare delle immagini in movimento. E il movimento ha sempre a che vedere con il cambiamento e, in ultima istanza, con la vita. Se Winter non si fosse messo in viaggio (e quindi in movimento), non avrebbe potuto ritrovare sé stesso.