Algoritmi indiani
Il Ponte rosso N° 29 | in altre parole | Luisella Pacco | Novembre - Dicembre 2017
Raccontare, è questo il segreto… Raccontarsi, e avere orecchio e anima per accogliere i racconti altrui
di Luisella Pacco
Per chi non la conoscesse (ma sono assai pochi!), Laila Wadia è una scrittrice indiana, nata a Bombay nel 1966, che da trent’anni vive in Italia ed è ormai – come viene definita in ogni articolo che la riguardi – “triestina d’adozione”.
Io ho avuto la fortuna di incontrarla, come scrittrice e di persona, dieci anni fa. Correva l’anno 2007 e al Concorso internazionale di scrittura femminile, organizzato dalla Consulta femminile di Trieste, partecipammo entrambe. Laila però aveva già pubblicato le prime opere, che facevano intuire talento, ironia, sguardo attento sulla condizione della donna (tutte promesse che l’attività successiva ha mantenute). Era quindi a un livello un po’ diverso rispetto alle altre concorrenti, ma non ne andavano di mezzo né la simpatia né l’umiltà che tuttora la contraddistinguono.
Vinse il premio speciale della giuria con un racconto brevissimo e toccante che si intitolava Lettera a mia madre.
Una giovane donna indiana, determinata e forte, scrive alla madre per spiegarle le ragioni che la portano a lasciare la famiglia e il paese d’origine. Non chiede perdono come fa chi si sente in colpa, né cerca comprensione come fanno gli indecisi. Lei non è colpevole di nulla, ed è consapevole e sicura di sé. Del resto, non vuol fare nulla di male. Vuole semplicemente decidere della propria vita, in libertà. Una libertà che tradizioni familiari e contesto sociale non le consentirebbero.
A me non basta essere moglie, madre e merce. Voglio essere amata compagna, preziosa amica e rispettata consigliera. Vorrei trovare un lavoro e, a suo tempo, un uomo da amare. Desidero viaggiare quando e con chi mi pare, e anche da sola. Voglio soddisfare la mia sete di conoscenza (…) Nessun profeta ha detto che è peccato gustare la vita a grandi bocconi (…) Peccato è obbligarmi a passare la vita intera con un uomo di vostra scelta, che penetrerà il mio corpo senza nemmeno aver sfiorato il mo cuore.
Un racconto che nel volumetto del concorso occupava poco più di due pagine. Ma dense e di valore come cento altre.
Le ho ritrovate ora, sviluppate in uno dei capitoli di Algoritmi indiani, l’ultimo libro di Laila, uscito quest’anno per Vita Activa Edizioni.
Nel frattempo, Laila ha lavorato tantissimo e ha pubblicato molte altre cose.
Dopo la partecipazione al libro Pecore nere (Laterza, 2005), scritto a otto mani con Gabriella Kuruvilla, Igiaba Scego, Ingy Mubiayi Kakese, e Il Burattinaio e altre storie extra-italiane (2004) per la bella collana Kumacreola di Cosmo Iannone editore, arrivano infatti la raccolta Mondopentola (2007, sempre Cosmo Iannone) di cui cura l’edizione e a cui partecipa con due racconti, uno dei quali insieme ad Armando Gnisci, direttore di Kumacreola, Amiche per la pelle (2007, e/o), Come diventare italiani in 24 ore (2010, Barbera), Se tutte le donne (2012, Barbera), Il testimone di Pirano (2016, Infinitoedizioni), e Kitchensutra (2016, autoprodotto) che per sgretolare gli stereotipi sull’India vuole scherzare sul poco che gli occidentali conoscono, ovvero il cibo e il Kamasutra…
Nel 2017 infine Laila approda a questo libro, Algoritmi indiani, un volume curato e bello come tutti quelli pubblicati (ma verrebbe da dire “coccolati”) da Vita activa, la costola editoriale della Casa internazionale delle donne di Trieste.
Molto lavoro a cui si aggiunge anche la collaborazione al film che è stato liberamente tratto da Amiche per la pelle, cioè Babylon sisters, gioiellino gradevole agli occhi e agli orecchi (uscito pochi mesi fa per la regia di Gigi Roccati), e la scrittura teatrale, in collaborazione con Chiara Boscaro, per lo spettacolo tratto da Come diventare italiani in 24 ore, portato in scena dalla bravissima Marcela Serli.
In una recente intervista radiofonica che mi ha concesso, Laila ha detto che sta avvicinandosi molto alla scrittura per il teatro, e chissà che in futuro altre delle sue storie non ci arrivino per quella via.
Storie, appunto…
Laila si definisce “narrastorie” per rendere omaggio alla figura del narrastorie indiano, o quella del cantastorie africano, che si muove verso un nuovo villaggio raccontando quello che ha visto nel villaggio precedente.
Storie che si intersecano su temi comuni e cari: la condizione della donna in India; la condizione degli immigrati (e soprattutto delle immigrate) in Italia; il diritto all’autodeterminazione e alla libertà; la ricerca di un’indipendenza economica che passa attraverso lo studio e la cultura; l’amore per le lingue straniere (“studiare una lingua è come rinascere”); l’importanza della solidarietà e dell’amicizia; la passione per la cucina, i sapori, le spezie.
Il tutto condito da una vena umoristica travolgente. Con i libri di Laila, si sorride. Si riflette su argomenti delicatissimi e difficili, ma quasi sempre con la bocca all’insù.
Algoritmi indiani è il primo libro che si discosta da questo sentiero dell’ironia. Non mancano i momenti di leggerezza, ma la voce di Laila, che stavolta racconta le mille contraddizioni della sua terra, è seria e composta.
Protagonista è Rani, una ragazza giovane intraprendente moderna, immagine della nuova India, della Bombay/Mumbai che ormai non ha nulla da invidiare alle altre metropoli del mondo.
Rani – che veste in jeans, guida una Honda 250, mangia nei fast food, tecnico informatico, ventisettenne, single – guarda sua madre, immagine della vecchia India, quasi con severità.
Gitanjali (…) all’età di sessant’anni, qualche volta si sentiva persino stordita nel salire in macchina. Alla velocità distruttiva del petrolio preferiva quella dei risciò nutrita dalla bruna forza dei muscoli che pedalavano per sfamare una famiglia. Gitanjali aveva sempre vissuto a passo d’elefante, senza mai sognare una vita dai ritmi più celeri. (…) Passava pomeriggi caldi e sonnolenti ad ammirare le coccinelle superstiti nel terzo millennio che si posavano sulle foglie del tamarindo poco prima che l’albero sbocciasse in diafani fiori bianchi. (…) Gitanjali sapeva che è solo attraverso l’infinitesimale piccolo che si possono capire i grandi misteri della vita.
Alzò gli occhi dal suo supdi, il vassoio di paglia che usava per separare il riso dalla pula, (…)
La figlia le sta dinnanzi, irritata da questo rito secolare, che trova quasi stupido.
“Mamma, esiste il riso preconfezionato. Non occorre stare lì seduta per terra tutta la mattina ad ispezionarlo come una scimmia a caccia di pulci!”
Gitanjali legge la parola GAP sulla felpa nera della figlia. Ed è come un preavviso che la nuova generazione stava dando alla vecchia guardia. Attenti, c’è un gap, un divario, che da piccolo strappo rammendabile con un abbraccio e due chiacchiere intorno ad una tazza di tè potrebbe diventare la deriva dei continenti. Una crescente fascia di nuovi indiani
parlavano linguaggi diversi, metaforicamente, ma non solo. La parola supdi, ad esempio, era estranea alloro bagaglio linguistico.
In tutta risposta Gitanjali si aggiusta le gambe e continua il suo lavoro, paziente, antico. Vorrebbe alzarsi per accompagnare alla porta la figlia che va al lavoro e magari metterle nella mano un tiffin a più strati per il pranzo.
Ma non lo fa più.
Sapeva che la giovane si sarebbe ribellata se avesse solo osato pronunciare la parola tiffin. La nuova India non si porta dietro la cialda, non se la fa nemmeno recapitare all’ora di pranzo (…) L’India tirata a lustro per attirare investimenti stranieri si nutre dell’idea che sushi è meglio di samosa, e nei tempi della globalizzazione il murgh tandoori sta cedendo il posto al Kentucky Fried Chicken in una guerra tra polli.
Rani, ovvero Dharani Deshpande, tradisce le tradizioni anche nel nome. Il suo nome d’arte è Rose, oppure Houston 3, nome della sua postazione.
Diventando Rose, la ragazza di nome Rani, diminutivo di Dharani, dea della terra (…) era consapevole di mutare d’identità, ma la cosa non le dispiaceva. Una doppia visione non è sempre destabilizzante, anzi spesso aiuta a rimanere in equilibrio. Rose era bellissima, perfetta e sicura di sé. Viveva in una casetta bianca con una madre elegante, perennemente truccata, che portava un filo di perle al collo, e un padre forte e vincente che giocava a baseball la domenica mattina prima del barbecue in giardino. (…) Rose faceva crepare d’invidia Rani.
Ma la veloce, efficiente, moderna Rani/Rose un giorno deve guardare negli occhi altre donne indiane, raccoglierne le testimonianze, rifletterci sopra.
Venerdì mattina cominciò con una pioggia demenziale che la costrinse a prendere l’autobus. Era impossibile avventurarsi al lavoro in moto. Sembrava che tutti gli dei messi insieme si fossero decisi a svuotare i loro vasi da notte sulla terra in un impeto d’ira. (…)
Abituata ad avere un mezzo indipendente o al comfort di un taxi, aveva perso familiarità con la massa che, prima di stiparsi nei mezzi pubblici diventando un singolo gigantesco corpo con tante teste, spinge con la forza di un trattore. Si era scordata soprattutto degli odori che avvolgono la classe lavoratrice medio-bassa (…) Per fortuna c’era un posto libero a metà autobus e Rani si abbandonò sul sedile con un tonfo irritato. L’autobus procedeva a singhiozzi, quasi ad imitare il suono della donna seduta accanto che aveva il volto rigato dalle lacrime. Era un pianto sommesso, e un po’ per curiosità, ma soprattutto per non pensare al ritardo con il quale sarebbe arrivata a destinazione, Rani le chiese perché stesse piangendo.
“Sono stata vittima della ruota”, rispose la donna dalla carnagione blu scuro, quasi incandescente.
“Un incidente?” chiese Rani, rassegnata, come la gran parte dei cittadini della metropoli, a sentire il quotidiano bollettino di guerra sulle strade.
“No, la ruota del destino. Ma ho paura che chiunque senta la mia storia venga trascinato anche lui nell’incessante giro del fato.”
Rani sorrise amaramente, commiserando la donna per la sua semplicità e al contempo maledicendo la superstizione che attanagliava il suo popolo. (…) confessò di non temere il malocchio, di essere certa che sono gli uomini a tracciare il loro destino, non le stelle, e quindi incitò la donna a raccontare.
Raccontare, è questo il segreto… Raccontarsi, e avere orecchio e anima per accogliere i racconti altrui. Questa la lezione dolce e ferma dei libri di Laila Wadia, e di questo in particolare. Racconti che lei stessa, nei suoi frequenti viaggi in India, ha ascoltato e custodito.
Di tutte le facce e tutte le storie di Algoritmi indiani, ciascuno leggendolo troverà la sua preferita, più commovente, più limpida, più emblematica di un paese che rimane ai nostri occhi misterioso e sfuggente. Io ho trovato la mia, quella a cui mi sono affezionata.
È Padmini, una ragazzina che Laila ha visto correre davvero a piedi nudi sull’asfalto rovente di Mumbai. Dove correva?
Ha tredici anni, e già tanto peso sulle spalle. È obbediente, laboriosa. Figlia di un cuoco e di una domestica che lavorano presso i signori Sanghvi, anche lei viene reclutata per qualche servizio; per portare le borse pesanti alla signora o per tenere in ordine la stanza del signorino, prepotente e viziato. Quelle di Padmini sono braccia da sfruttare gratuitamente…
Ma c’è una commissione che le piace da matti: andare in biblioteca.
Le viene concessa un’ora e mezza. Mezz’ora andare, mezz’ora tornare; e poi la stupenda mezz’ora per prendere a prestito i testi che i signori hanno richiesto. Perciò Padmini corre a perdifiato, per rubare minuti al tragitto e dedicarli ai libri sugli scaffali.
Quando protesta che da grande non vuol fare la domestica bensì la bibliotecaria, i genitori sono sotto choc.
“La che?” squittirono (…) . Vedi che abbiamo fatto bene a levarla dalla scuola, commentarono gli occhi di papà. (…) L’istruzione è una bestia pericolosa. Mette strane idee in testa alle ragazzine.
Non appare invece per nulla strano che un giorno il signorino abusi di lei. Il padre la prenderà a cinghiate nella speranza di farla abortire, e se proprio non funzionerà ci sarà la signora Sanghvi con le sue mille rupie e l’indirizzo di una clinica privata.
Già, erano più belli i libri… Erano più dolci i sogni, vero Padmini?
Copertina:
Laila Wadia
Algoritmi indiani
Fotografie: Tullio Valente
Vita Activa, Trieste 2017
- 154, euro 14,00