A cosa pensiamo quando diciamo libertà?
Gabriella Ziani | Il Ponte rosso N° 74 | novembre 2021 | società
La riflessione pubblica, in questi mesi, è attonita di fronte allo sbandieramento della parola “libertà”. Qual è il vero senso?
di Gabriella Ziani
Quando nel 2001 il presidente americano George W. Bush si preparava a scatenare l’invasione dell’Iraq come controffensiva al devastante attacco islamico alle Torri gemelle dell’11 settembre la parola che in pubblico usò con inusitata frequenza fu “libertà”: la libertà degli Stati Uniti era stata violata, bisogna andare in guerra in nome della libertà. L’anno seguente fu approvato un documento che autorizzava anche guerre preventive, sempre in difesa della libertà. In un discorso del 2005 pronunciò per 49 volte la parola libertà in dieci minuti. Nel frattempo però aveva fatto approvare al Senato un disegno di legge di 300 pagine col quale, per difendere la libertà dai pericoli del terrorismo interno, autorizzava intercettazioni telefoniche, spionaggio dei cittadini, violazione della corrispondenza e delle e-mail, e la carcerazione di 1200 persone legate al Medio Oriente senza atti di accusa e senza prove di reato. Anche il presidente Kennedy che a partire dal 1961 aveva incrementato le azioni americane nella guerra in Vietnam ne propagandò la necessità facendo leva sulla difesa della libertà americana, stavolta libertà dal comunismo. Una battaglia, quest’ultima, che negli anni Cinquanta aveva prodotto la potente azione censoria e persecutoria nei confronti di presunti “sovversivi di sinistra”, poi denominata “maccartismo” dal senatore Mc Carthy che l’aveva messa in moto.
«Libertà va cercando» dice Virgilio di Dante nel primo canto del Purgatorio. E nessuno come gli Stati Uniti ne ha fatto una bandiera di cui la celebre e iconica Statua della libertà è un simbolo, anche se ai suoi piedi si sono consumate molte illiberalità, a partire dalla segregazione razziale per gli afroamericani ai quali era stata fatta balenare la “libertà” dopo la Guerra civile e l’abolizione della schiavitù. A seconda dei momenti, la definizione di libertà ha cambiato faccia. I padri fondatori la riservarono solo ai proprietari terrieri di religione protestante. Con la rivoluzione industriale e la nascita delle masse operaie si discusse se libertà fosse avere un lavoro e un salario, o al contrario essere liberi dal lavoro che “rendeva schiavi”. Col XX secolo e la produzione di beni di massa, la libertà fu equiparata alla “libertà di scegliere” oggetti di consumo, cosa che avrebbe “liberato” anche le donne, già peraltro “liberate” dagli affanni casalinghi (diceva la pubblicità) grazie a elettrodomestici e pasti precotti.
A lungo i movimenti femminili e femministi avevano protestato contro la “schiavitù” delle quattro mura, del matrimonio, e perfino della maternità pretendendo parità di diritti e indipendenza economica. Ma quando la Grande depressione seguita al crack del 1929 riempì l’America di disoccupati, una legge proibì il lavoro alle donne: il diritto andava preservato al capofamiglia maschio. E così via: perfino il New Deal, con le riforme sociali varate da Roosevelt per risollevare la nazione immiserita furono contestate come intervento statale che limita la “libertà individuale”. Il dubbio era: meglio la “libertà” a prezzo di ineguaglianze, darwinisticamente lasciando sopravvivere solo alcuni, o la “non libertà” statale, a protezione dei deboli?
Negli anni Venti gli Usa avevano proibito la somministrazione di alcol (scatenando peraltro un lucroso mercato clandestino da parte di chi si prendeva le proprie libertà). Ma gli Usa non sono mai stati dell’idea di proibire l’uso incondizionato delle armi, in nome della libertà di autodifesa, né di garantire un sistema sanitario solidale, in nome della libertà di scegliere le cure (pagando…). Ne discendono morti e diseguaglianze, ma il principio – e soprattutto il mercato cui non viene mai ristretta alcuna libertà – non muore e non si ammala.
Questa lunga vicenda, da cui sono tratti gli spunti precedenti, è stata scritta con un punto di vista originale un po’ di anni fa (1998) dallo storico Eric Foner della Columbia University in Storia degli Stati Uniti D’America. La “libertà americana” dalle origini a oggi, che per la riedizione del 2017 ha aggiunto una valida prefazione di aggiornamento (in Italia tre ristampe, grazie alla casa editrice Donzelli). Un libro e una storia che ronzano adesso in testa di fronte a cortei perfino violenti che agitano il tam-tam “libertà”, o addirittura freedom (indebito calco del grido di dolore dei neri americani). Proteste che invocano il diritto a non vaccinarsi contro il Covid-19, a non sottoporsi a controlli di salute pubblica, a non indossare dispositivi di protezione dal contagio, a non credere alla malattia, e nemmeno ai cinque milioni di morti che il virus, finché è stato in pieno possesso della propria libertà, ha causato nel mondo.
Un cortocircuito è avvenuto da qualche parte, se esistono frazioni di popolazione – pur minime – che, assistite e curate gratuitamente, e portate con dispendio di mezzi pubblici a garantirsi salute, lavoro e vivibilità sociale nel mezzo di un disastro pandemico epocale, di fatto reclamano la libertà di ammalarsi e di far ammalare il prossimo: una rivolta al contrario, non per avere, ma per togliere. In questa jacquerie si annidano poi deviazioni di violenza anche armata, e alcune blasfemie come sfilate di bare e divise da campo di concentramento.
La riflessione pubblica, in questi mesi, è attonita di fronte allo sbandieramento della parola “libertà”. Qual è il vero senso? Secondo il filosofo Pier Aldo Rovatti (Il Piccolo, 12 novembre 2021) si raduna nelle piazze «una folla di solitudini», che invocano solo una libertà di azione ristretta alle proprie individuali “libertà” quotidiane. Tra queste minoritarie folle, che s’innalzano con presunzione a depositarie di verità e libertà sbandierando la Costituzione, allignano larghe percentuali della ormai vasta platea di non votanti. Forse dopo aver preso fin troppo dal modello americano (perfino l’aliena festa di Halloween…), stiamo assorbendo anche questo cascame della sua enfasi libertaria: meno Stato, gerarchie, informazione strutturata, sindacati, regole eccetera. Un richiamo della foresta, la cui plastica rappresentazione si è avuta (e sembrava fantascienza) all’ultimo atto della presidenza Trump, con l’assalto al Campidoglio americano da parte di una guerriglia capeggiata da uno scalmanato coperto con pelli di animali, autodefinitosi sciamano. Ma ormai anche nei nostri ospedali, apprendiamo dalle cronache, qualche esagitato assalta i medici sbandierando lo sciamanesimo. Ma che vuol dire?
«La parola oggi è sofferente – scrivono Paola Mastrocola e Luca Ricolfi in Manifesto del libero pensiero, La nave di Teseo-La Repubblica, 2021 -. È la parola degradata dei social. Abusata, stravolta, strumentalizzata, incattivita, imbarbarita, usata a sproposito, storpiata, sgrammaticata, svilita». Proseguono i due autori: «Oggi più che mai abbiamo bisogno di essere persone che si rispettano vicendevolmente: ma in quanto esseri umani, e non perché appartenenti a una specifica categoria di vittime […]. Una società moderna, aperta e non bigotta, non può lasciare a una sola parte politica l’esclusiva della difesa della libertà d’espressione. Perché la libertà non è né di destra né di sinistra, ma è il principio supremo del nostro vivere civile».
Già. Siamo diventati incivili o questi antagonismi senza rispetto nascondono anche altro? Come ogni pandemia, in ogni secolo, anche quella da Covid apre faglie inaspettate, e rivela atteggiamenti che dormivano in quiete: per esempio la diffidenza verso le cure dichiarata dai contrari al vaccino è stata, durante pestilenze e altre epidemie, una caratteristica degli strati sociali bassi, poveri e isolati, incapaci di elaborazione culturale, e dunque restii a uscire dal rassicurante “già noto” per affidarsi a pratiche mediche percepite come misteriose, anche a causa della distanza e dunque del sospetto sociale. Tornano in mente i colerosi di campagna di due secoli fa convinti che il medico li venisse a uccidere, e che bere l’acqua di mare (un letamaio conclamato) facesse guarire. I nostri manifestanti che invocano “libertà” dal vaccino, propalando che sarebbe nido di occulti microchip-spioni, si informano attraverso Internet e varie piattaforme di cui non indagano i meccanismi, questi sì reali benché ben occultati, che captano le loro orme a scopo commerciale o peggio. Le illiberalità del “mercato globale” non sono sotto processo: del resto vengono dagli Stati Uniti, impero e prateria delle libertà individuali di consumo.
Il libro di Foner sulla enorme “fabbrica di libertà” che sono gli Usa ha oltre 400 pagine, ma in nessuna si trova traccia di qualche americano, di qualsiasi epoca, estrazione sociale, razza e inclinazione politica, che abbia rivendicato la libertà di diffondere malattie, o abbia azzannato il medico in nome della libertà di ammalarsi. Anzi: la convulsa storia è una faticosa marcia verso conquiste sociali ed etiche per settori via via esclusi, in un dibattito estenuante che non è mai riuscito, nonostante leggi e correttivi (a partire dalla successione di numerosi Civil Right Act, spesso disattesi) a catturare, della libertà, la migliore versione tutta intera. «Che cosa si intendesse per libertà – scrive Alessandro Portelli nella postfazione al volume di Foner – è dipeso di volta in volta da rapporti di forza politici e ideologici, la libertà stessa è stata negata da pratiche oppressive e violente come la schiavitù dei neri, il genocidio degli indiani, la subordinazione delle donne, lo sfruttamento senza mediazione nei rapporti di produzione, gli attacchi ai diritti politici…». Ne patirono anche gli immigrati, gli asiatici, gli scioperanti senza libertà di parola, gli artisti accusati di “oscenità”.
Ma già negli anni Cinquanta i sondaggi dimostrarono che questa martellante insistenza era entrata fino in fondo nella coscienza popolare, anche se la parola libertà era diventata ormai di gomma: libertà erano un’automobile e la casetta nei sobborghi ben isolata etnicamente, era comprare beni materiali e avere tempo libero: una libertà, appunto, individuale. Sistemate più o meno le cose interne, questa convinzione-illusione si è allargata fuori dai confini, con la certezza di dover “esportare la libertà americana” all’estero, come si trattasse di un buon prodotto confezionato in fabbrica.
E le nostre nervose piazzate? Fra tanti cartelli dovrebbe trovar posto quello che richiama un ancora insuperato stile di gestione della libertà, che non è made in Usa, ma viene dall’Inghilterra del Settecento, con il filosofo John Locke: la libertà si fonda sulla tolleranza, non coincide con l’anarchia o il capriccio individuale, ma presuppone di essere organizzata nella struttura della società civile. O come disse lapidariamente agli Stati Uniti razzisti il più profetico paladino dei diritti dei neri, Martin Luther King: la mia libertà finisce dove comincia la vostra. Semplice, no?
Eric Foner
Storia degli Stati Uniti d’America
La “libertà americana” dalle origini a oggi
Traduzione di Annalisa Merlino
Donzelli, 2017
- 430, euro 30,00