A casa tra un poco
Grisancich 80 | Il Ponte rosso N° 10 | Il Ponte rosso N° 51 | Walter Chiereghin
Un nuovo volume della Libreria del Ponte rosso
Dalla prefazione al volume, qui riadattata per la finalità informativa cui si conforma:
Nasce da un festoso beneaugurante pretesto anagrafico, quello di una degna celebrazione degli ottant’anni di Claudio Grisancich, l’idea di questo libro, all’interno di un progetto che, per iniziativa del Ponte rosso, abbiamo chiamato “Una città per il suo poeta”. Si tratta di un tributo che volentieri onoriamo, per la parte che ci compete, riconoscenti per la vicinanza che il poeta ha sempre voluto esprimere alla nostra rivista web, ma più che per questo, perché nel panorama letterario triestino, e da molti anni, egli esercita – segnatamente ma non esclusivamente nella poesia in dialetto – un ruolo di primo piano assoluto, continuando con altri mezzi la stagione dominata prima di lui da Virgilio Giotti, che fu, come Giani Stuparich, frequentatore assiduo dei martedì in casa di Anita Pittoni, dove la vena poetica del giovanissimo Grisancich fu a lungo incubata, fino a schiudersi alfine nel 1966 con la pubblicazione della prima raccolta di versi, Noi vegnaremo, nella prestigiosa collana editoriale dello Zibaldone.
Da quell’esordio ormai lontano nel tempo, numerose altre pubblicazioni si sono succedute, irregolarmente intervallate, ma in particolare negli ultimi anni una fortunata copiosità creativa ha dato luogo, a partire dalla pubblicazione di Album, l’ormai esaurita silloge edita da Hammerle nel 2013, a una stagione di rinnovato impegno, esercitato frequentemente secondo modalità narrative, sia nelle opere che hanno visto la luce nelle librerie che in altre tuttora inedite. Avevamo pensato in un primo tempo alla pubblicazione integrale di questo ormai voluminoso corpus di versi sia in dialetto che in italiano, ma abbiamo alla fine preferito cedere questa impegnativa prova a un editore esperto e amico, e il relativo volume – che fin dal titolo, Gente mia, suggerisce una sua vocazione a un tempo colloquiale e popolare tanto d’ispirazione e di contenuti che di modalità espressive e linguistiche – uscirà, contestualmente a questo del quale parliamo, per i tipi della Hammerle editori, e di esso parliamo all’articolo seguente su questo stesso numero.
Noi, per il secondo volume della “Libreria del Ponte rosso”, abbiamo scelto qualcosa di diverso, attingendo alla cospicua produzione teatrale del Nostro, ritenendo opportuno dare finalmente alle stampe un inedito d’annata, A casa tra un poco, per una serie di ragioni che si renderanno subito evidenti.
Una volta caduta la scelta su un testo drammaturgico inedito, il “pretesto anagrafico” di cui s’è detto all’inizio, si è subito allargato a macchia d’olio, a includere altre autorevoli e care presenze tuttora vivide nella città che le ha viste operare con appassionata competenza, quando ancora avevamo la fortuna di vederle tra noi: Roberto Damiani, co-autore del testo, e il regista Francesco Macedonio (Cesco, per quasi tutti), che di tale testo si è appropriato trasfigurandolo, da par suo, sul palcoscenico dell’Auditorium triestino, a partire dalla serata del 20 maggio 1976, che ha segnato l’avvio di un altro “miracolo” della cultura triestina.
è nato difatti quella sera quel Teatro popolare La Contrada che ancora oggi opera attivamente, come Teatro stabile di Trieste, principalmente nella sala teatrale oggi intestata a Orazio Bobbio, anche lui parte del quartetto che ha dato vita a quest’altra storia, assieme a Macedonio, a Lidia Braico e ad Ariella Reggio, tuttora incontrastata primadonna e popolare colonna portante della “Contrada”. Tutti e quattro i soci fondatori della temeraria iniziativa furono naturalmente coinvolti nello spettacolo, che tra l’altro poté giovarsi dell’allestimento scenico e dei costumi di Sergio d’Osmo e delle musiche di un valente compositore quale fu Giampaolo Coral.
Il testo dialettale di A casa tra un poco, che nel volume proponiamo per la prima volta alla lettura, riveste un interesse che si divarica nel tempo, a partire da quel fatale 1902 in cui s’immagina immerso lo svolgimento dell’azione scenica, per raggiungere il nostro presente, passando dal 1921 che è l’altro piano della narrazione teatrale e, naturalmente, dagli anni Settanta del secolo scorso, periodo di forte impegno politico, nel quale l’opera di Damiani e Grisancich è stata concepita e quindi portata sulle scene.
A Trieste il teatro in dialetto aveva già avuto dei precedenti di rilievo, oltre che ad opera delle compagnie filodrammatiche, anche presso il Teatro Stabile, che aveva affidato proprio a Macedonio la regia di una fortunata trilogia basata sui testi di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, ma si trattava di commedie, di spettacoli leggeri e divertenti, in cui un dialetto in buona misura inventato dai due autori, entrava di prepotenza con un suo attivo ruolo nella comicità delle scene e delle situazioni rappresentate. La scommessa nella quale si impegnarono Damiani e Grisancich fu invece quella tentare la via «di servirsi del dialetto senza compiacimenti vernacolari» come gli stessi autori avvertivano nel programma di sala, ormai introvabile, che riportiamo nell’apparato iconografico del volume.
Del resto, sul dialetto e sul suo uso letterario i due coautori dovevano aver riflettuto a lungo, considerato che avevano pubblicato assieme, prima del testo teatrale che qui proponiamo, un fortunato volume, Poesia dialettale triestina – Antologia 1875-1975 (Edizioni Italo Svevo, Trieste 1975 e, in seconda edizione: ivi, 1976), mentre anche in seguito avrebbero continuato la loro collaborazione sulla materia, con la redazione, per il medesimo editore, di un’altra antologia, La poesia in dialetto a Trieste, del 1989. Anche in occasione di lavori per la diffusione radiofonica dall’emittente RAI di Radio Trieste, l’accoppiata Damiani-Grisancich aveva del resto piegato il dialetto alle esigenze di rappresentare situazioni drammatiche, sottraendolo quindi a un registro esclusivamente o prevalentemente giocoso e ironico, quando non farsesco. Per inciso, va segnalato che lo stesso A casa tra un poco ebbe un precedente radiofonico nei programmi culturali dell’emittente locale, grazie alla regia di Ugo Amodeo.
Abbiamo ritenuto opportuno, nel progettare il nuovo libro, mettere a fuoco sia il testo, considerato dal punto di vista letterario, che la realizzazione drammaturgica che ne conseguì, come pure uno sguardo non superficiale sull’epoca e sui fatti del febbraio 1902 che videro nella Trieste allora austro-ungarica la lotta dei fuochisti del Lloyd Austriaco e dell’intera classe operaia che attorno ad essi si strinse, in una lotta risultata alla fine vittoriosa, nonostante fosse stata oggetto di una repressione violentissima e omicida quanto inutile. Per approfondire tutti i tre aspetti, letterario, drammaturgico e storico che si intersecano nelle pagine di A casa tra un poco, abbiamo potuto valerci rispettivamente delle competenze di Fulvio Senardi, Paolo Quazzolo e Luca Zorzenon per dar luogo ai tre brevi saggi che, in margine al testo, ne chiariscono ed illustrano i contenuti ed il contesto storico e teatrale nel quale il dramma si sviluppa.
A Claudio Erné dobbiamo anche la presenza di alcune immagini del 1902, desunte da lastre ora in suo possesso, e una nota riassuntiva degli eventi dello sciopero dei fuochisti.
Riteniamo con questa nostra proposta editoriale, di aver contribuito a rendere nota e a riportare all’attenzione degli studiosi e del pubblico una pagina interessante e davvero importante della cultura giuliana, che per merito di Roberto Damiani e Claudio Grisancich si è venuta a collocare in un’area nella quale confluirono ispirazioni di carattere linguistico-letterario, impegno politico- sociale e analisi storica. Che quest’articolata pluralità di fattori si fosse poi concretata in una messa in scena teatrale appare oggi come il migliore viatico per un altro percorso di impegno, di lavoro e di cultura, che iniziava in quella primavera ormai lontana, e che ancora oggi, a quattro decenni e passa di distanza, si rinnova, ogni volta che si apre il sipario del teatro Bobbio. Ma questa, si direbbe, è un’altra storia.
E invece no: è soltanto la prosecuzione di quella che con questo libro intendiamo narrare.
Walter Chiereghin