Le geografie sommerse di Monika Bulaj

Al Magazzino delle Idee a Trieste, un’antologica curata dalla stessa artista presenta oltre cento immagini: trent’anni in giro per il mondo

di Paolo Cartagine

 

Nata a Varsavia, ma da lungo tempo residente a Trieste e naturalizzata italiana, Monika Bulaj è in realtà cittadina del mondo. Fotografa, antropologa, giornalista, documentarista, reporter e scrittrice, da sempre coltiva un interesse profondo per l’incontro con persone e culture minoritarie, con popolazioni per vari motivi relegate in posizioni subordinate, al fine di dare voce a chi voce non ha attraverso narrazioni fatte di immagini e parole, dove è determinante la fotografia. Un’attività che fra l’altro l’ha avvicinata al panorama della “fotografia etica” internazionale.

La mostra fotografica Geografie sommerse – promossa dall’Ente regionale patrimonio culturale del Friuli Venezia Giulia, visitabile in anteprima mondiale al Magazzino delle idee di Trieste fino all’8 ottobre 2023 – è una rassegna antologica curata dalla stessa Bulaj, una condensazione in 104 immagini a colori e bianconero di 30 anni di ininterrotto lavoro in giro per il mondo, enucleate dall’archivio dei suoi numerosi reportage in territori lontani e sperduti.

Tantissimi i Paesi che, al di fuori dai circuiti turistici, ha attraversato in un percorso che unisce tematiche e punti lontani nello spazio e nel tempo in Europa, Asia, Africa e America per raccontare l’umanità alla periferia del mondo, una pluralità di istanze provenienti da tanti luoghi che si portano dietro miriadi di storie dolenti.

Le foto non sono accostate per cronologia, vicinanza geografica o similitudine di accadimenti storici; i legami nascono da ragioni più profonde, stratificate e complesse insite nelle storie che le immagini raccontano, e che ogni lettore è implicitamente chiamato a decodificare per trovare dentro di sé le inerenti risposte e addivenire a una propria, legittima personale interpretazione individuale.

Infatti, il visitatore si trova subito avvolto in un’atmosfera unica e speciale, frutto delle scelte umane e operative dell’autrice che, nel corso delle sue ricerche, ha vissuto assieme alle persone coinvolte, ha mangiato con loro e dormito nelle loro abitazioni, in modo da sperimentare su sé stessa e senza intermediazioni la quotidianità del vivere di quelle genti, e diventare così testimone consapevole dei loro frammenti di esistenza. Un contatto diretto, ben percepibile nelle foto, reso possibile anche dall’istintiva empatia di Bulaj soprattutto verso chi ha un altro colore della pelle, un’altra filosofia di vita, un’altra cultura o altri saperi distanti dalle logiche razionali del cosiddetto mondo occidentale.

Di riflesso il visitatore può così mettere in luce alcuni aspetti fondamentali del suo modo di pensare e di agire: le connessioni fra contenuti delle ricerche e conseguente individuazione di luoghi, situazioni e aspetti da analizzare e persone da incontrare; la realizzazione di scatti mai episodici bensì sempre funzionali a raccontare per immagini; i collegamenti fra didascalie, testi di accompagnamento e catalogo.

Allora Geografie sommerse assomiglia a un romanzo che – senza l’assillo della stringatezza della comunicazione contemporanea dei mass media e del web, e con il giusto distacco per evitare eccessivi sentimentalismi e restare nella semplicità – non impone una conclusione immediata e univoca, ma procede con infinite diramazioni che propongono dettagli mai inutili e sempre forieri di ulteriori spunti di riflessione, che illuminano la mostra dall’interno e che fanno sorgere sensazioni e sentimenti non effimeri, che interrogano il lettore su talune invarianti di fondo della storia dell’umanità, e in particolare di quella più povera, emarginata, dimenticata.

Il termine “geografie” rimanda al concetto di più luoghi e più culture. Qui siamo nel rovescio delle società occidentali, dove la libertà è un’idea proibita, in zone desolate che non ospitano paradisi ma inferni, non nel vivo dello svolgersi di conflitti armati ma comunque in aree percorse da guerre e offuscate da difficoltà di ogni tipo.

“Sommerse” perché non in primo piano, non del tutto visibili, poste in ombra o accantonate, dove gli esseri umani (le donne soprattutto) non sempre riescono a lasciare dietro di sé tracce del proprio passaggio.

È una mostra in doppia scrittura fatta all’unisono da foto e testi, due canali informativi che si integrano e si completano a vicenda, come se le immagini si collocassero negli spazi bianchi lasciati fra una parola e la successiva. Dato che le foto sono intraducibili nel linguaggio delle parole (e viceversa), in Geografie sommerse “guardare” e “leggere” si fondono in maniera inestricabile arricchendosi reciprocamente.

Geografie sommerse possiede due caratteristiche di rilievo.

La prima è quasi un’eccezione rispetto alle consuete mostre fotografiche di autori viventi in quanto generalmente orientate verso soggetti circoscritti e settoriali, realizzate con un numero di foto alquanto contenuto. Pertanto, non rassegne antologiche di grande respiro afferenti a lunghi periodi.

La seconda caratteristica porge al visitatore-lettore l’occasione di poter constatare se e in quale misura, nel corso dei 30 anni in cui ha sviluppato il suo lavoro, l’autrice è “sempre la stessa” o se è cambiata in ragione a esempio delle molteplici esperienze nel frattempo maturate, del conseguente ampliamento degli orizzonti di riferimento, dell’insorgenza per l’intero pianeta di nuove problematiche economiche, sociali e climatiche.

L’insieme di foto e testi riguarda la quotidianità della vita nei luoghi in cui Bulaj ha attuato le proprie ricerche.

A un osservatore esterno e non del tutto attento, la quotidianità sembra non avere alcun tempo perché ogni giorno appare simultaneamente uguale all’ieri e al domani. Però, quando il nostro guardare ci porta dentro alle foto, le immagini non smettono più di sorprenderci in quanto, superata l’iniziale barriera del silenzio, troviamo le soluzioni agli enigmi che ogni immagine contiene quando affronta le vite degli altri.

Il modo di fotografare di Bulaj fa sì che le foto ci parlino e non rimangano rettangoli sterili e inerti. Innanzitutto, l’autrice realizza inquadrature mai ovvie per restituire l’atmosfera e il significato dei singoli momenti ripresi. Poi, in post-produzione non si conforma meccanicamente ai precetti standard manualistici, ma plasma luci ombre tonalità e sfumature correlandoli ai messaggi veicolati senza forme di compiacimento estetico. Dietro uno stile si nasconde una personalità e – come sosteneva Marguerite Yourcenar – «l’essenziale non è tanto la scrittura, quanto la visione».

La figura di Monika Bulaj è dunque quella complessa e unitaria che unisce il viaggiatore- esploratore al viandante-scrivàno che si muove alla ricerca di cose nascoste e sconosciute per raccontarci il destino di una parte del mondo e dell’umanità, e che poi mette i suoi ricordi in pagina per darci un resoconto delle scoperte, con gli occhi del dopo che conservano però le impressioni del prima perché scrivendo delle vite degli altri si scrive inevitabilmente di sé stessi.

 

Il canto potente delle donne pugliesi

per la madre di Dio che perse il figlio

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Canosa, Italia, 2015

© Monika Bulaj