Due modi di cercare Dante

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Stiamo girando attorno a Dante come falene attorno alla luce, perché probabilmente non c’è altra via

di Francesco Carbone

 

«Se convieni che tanto un lettore riceve

quanto sa ridare di sé al testo…»

(Mario Apollonio, Dante. Storia della Commedia).

 

Nella saggia – e quindi paradossale – filosofia Zen, il koan è un enigma proposto dal maestro all’allievo perché si avventuri nella via della sua personale illuminazione. Imparerà la vanità di tanti percorsi apparentemente a vuoto, lo spiazzamento di fronte a una prova imprevista e forse – chissà – alla fine l’illuminazione: il satori. L’esercizio del koan dovrebbe insegnarci che le domande sono sempre più grandi delle risposte, che le questioni essenziali della vita non si liquidano come i problemi dell’algebra in soluzioni definitive, valide in ogni caso, per tutti, sempre. L’esercizio del koan ci insegna che lo stesso enigma della vita non si risolve ma si abita. Il modo di abitarlo sarà tutto. Lo stesso vale per le opere di ogni arte. Non è un koan perfetto quello di Gustav Mahler che avvertiva che della musica in uno spartito c’è tutto tranne l’essenziale? Mallarmé diceva che le poesie sono misteri composti per non essere risolti. Montale la stessa cosa quando avvisava che le poesie sono state scritte per dare forma a qualcosa che non può essere ridotto a parafrasi. La parafrasi è proprio ciò che delle poesie conserva, quando ben fatta, tutto tranne l’essenziale. Le poesie sono dei koan. E proprio un koan famoso dice che lo stesso Zen è qualcosa a cui più ti avvicini, più ti allontani. Guarda caso, lo stesso aveva scritto Osip Mandel’štam della poesia di Dante: «leggere Dante è una fatica senza fine: più si avanza, più la meta si allontana» (Conversazione su Dante, Adelphi 2021). La Commedia di Dante è un meraviglioso koan di 14.233 versi.

Forse in Occidente abbiamo iniziato a sospettare che per tante cose questa fosse proprio la faccenda da quando il giovanissimo Heisenberg nel 1927 ci rivelò il principio di indeterminazione: già negli atomi, gli elettroni si negano a una definizione esatta della loro traiettoria; ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Eppure proprio Mandel’štam ci avverte che «Dante può essere compreso solo con l’ausilio della teoria dei quanti», indicazione che al momento non ha avuto seguaci e che in ogni caso non dovrebbe allarmarci: caso mai darci un sollievo, perché nessuno di noi è capace di fissare Dante in qualche formula definitiva. Se davvero frequentato, Dante sarà sempre allo stesso tempo intimo e infinitamente lontano: proprio come le persone che amiamo. Direbbe Heidegger: c’è un eccesso di vicinanza che tradisce e uccide, c’è una distanza che salvaguarda e custodisce. Il koan è trovare ogni volta quel punto.

I pigri vorrebbero consolarsi dicendosi che, dopo settecento anni d’investigazioni, su Dante si è detto tutto. Fosse vero, la Commedia sarebbe morta. Scrive sempre Mandel’štam: leggerla e rileggerla riserva «una pioggia di imprevisti»; da quella pioggia, una buona arte ermeneutica dovrebbe insegnarci a non tenerci al riparo. Sono settecento anni che interroghiamo Dante e ancora, da quella stella in fuga che è la Commedia, arrivano risposte inattese, fioriscono misteri che nei loro petali risucchiano proprio ciò che credevamo di avere compreso. Scopriamo così che, proprio quando abbiamo avuto la sensazione di avere chiare almeno certe cose, eravamo finiti nel cuore del nostro errore. Gianfranco Contini, tra i massimi lettori di Dante, ha tolto molti veli ai lettori di quel testo stoltamente creduto limpido – e quindi perfettamente equivocato – che è il sonetto Tanto gentile, tanto onesta pare (G. Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970). Ha inaugurato così nuove migliori investigazioni. Quell’esercizio dovrebbe servirci da guida sempre.

Stiamo girando attorno a Dante come falene attorno alla luce, perché probabilmente non c’è altra via: «disegniamo le nostre carte, commentiamo e descriviamo, niente corrisponde al vero» (I. Bergman, Lanterna magica, Garzanti 2013), a quel vero algebrico e definitivo che dovremmo imparare semplicemente a rifiutare di scambiare con la verità, che è più sottile e più complessa. Pascal chiamava esprit de finesse questa dote, opposta al cartesiano esprit de géométrie.

Nel primo canto dell’Inferno, Dante chiama questo farci satelliti di un’opera sublime cercare (Inf. I, 84). Questo cercare dirà molto di più dell’avventuroso esploratore che del libro di Dante: e infatti ricominciamo sempre da capo, mentre le letture di Vico, Foscolo, Mazzini, De Sanctis, Carducci, Pascoli, Croce, ecc. ci appaiono molto più pagine, magari sublimi, di un’autobiografia, magari non solo personale ma della Nazione: fasci di luce capaci di velare Dante invece che di svelarlo. Oltre le mappe di quegli esploratori, la Commedia resta un koan.

Ora, la saggia – e quindi paradossale – filosofia Zen ci insegna che ci sono due vie per giungere all’illuminazione (il satori), all’Eureka in cui abbiamo la sensazione che tutto finalmente torni: la via lenta e annosa, fatta di studio, di lunga fedele attenzione, di esercizi che possono essere enigmatici e perfino crudeli, e l’esatto contrario: una rivelazione istantanea, un’illuminazione come di Saulo sulla via di Damasco, gratuita e ineludibile: la mela che colpisce la testa geniale di Newton e gli fa vedere di colpo, in un pomo, l’intero vorticare dei pianeti e delle galassie.

Un esempio della via lunga sono le oltre 600 fitte pagine del volume di Mario Apollonio Dante. Storia della Commedia; della via breve le leggere e preste molto (come la lonza del primo canto dell’Inferno) poche decine di paginette della Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam. Mario Apollonio (1901-1971) è stato uno studioso pionieristico della storia del teatro che molto si dedicò anche a Dante. Si è meritato una voce nell’Enciclopedia dantesca della Treccani. Scrive da erudito, richiede un lettore attento, paziente, educato a una prosa elaborata che ama i giri sintattici complessi, i vocaboli rari, quei pensieri che nascono a cascata gli uni dagli altri che la retorica chiama ipotassi. Apollonio è un erudito, Mandel’štam (1891–1938) è un genio.

In Dante. Storia della Commedia, abbiamo una prima parte – Lettura della Commedia – di oltre 300 pagine che è un vero e proprio libro parallelo, come quello sublime di Giorgio Manganelli su Pinocchio, del poema: una accurata riscrittura in prosa canto per canto. La stessa operazione, in modo più agevole, l’ha fatta alcuni anni fa Emilio Pasquini con Il viaggio di Dante. Storia illustrata della «Commedia» (Carocci 2015, ripubblicato nel 2021). Pasquini è più piacevole ed efficace. La seconda parte del volume di Apollonio è la più interessante: s’intitola Storia della fortuna e ripercorre la plurisecolare vicenda di come Dante sia stato letto: dai suoi contemporanei fino a Giovanni Pascoli. Molto semplificando: Dante appare come una stella che da subito illumina fino ad abbagliare per poi via via eclissarsi: già con Petrarca, e soprattutto nel secolo petrarchesco (il Cinquecento, con l’eccezione strepitosa delle rime di Michelangelo); si fa fioco ancora di più nel tempo che va dal Barocco al Rococò. Questa parabola discendente ha il suo punto più basso nel rifiuto di Voltaire (che respingeva l’altrettanto, per lui, barbarico Shakespeare). Dante riapparve grande nel capolavoro, La scienza nuova (1725) di quell’outsider che fu Gian Battista Vico, a lungo rimasto poco ascoltato, e risorge col Risorgimento, con tutte le implicazioni politiche e militanti che in quel tempo si sentiva impellenti: Ugo Foscolo e Giuseppe Mazzini in primis. Con l’unità d’Italia, prese il campo la lettura di Francesco De Sanctis. Ma ogni fama, come scrive Dante nell’XI del Purgatorio, è destinata a diventare «scura». – Apollonio è una buona guida in questa disanima: ci racconta non solo di letteratura ma anche di musica e di pittura, perché Dante è stato – ed è – qualcosa che nulla in nessuna arte ha lasciato intatto.

Il «lungo studio e ’l grande amore» (Inf. I, 83) di Osip Mandel’štam si condensò, nel 1933, nelle poche decine di pagine della meravigliosa Conversazione su Dante. Per il settecentenario è stato pubblicato da Adelphi e ripubblicato dal Melangolo. Mandel’štam iniziò a studiare l’italiano, proprio per leggere Dante, nel 1932. Anna Achmatova ricorderà che Mandel’štam letteralmente «ardeva» con Dante, che lo recitava giorno e notte. Dettò – come faceva sempre – alla moglie Nadežda le sue illuminazioni (Nadežda Mandel’štam, L’epoca dei lupi, Serra e Riva 1990). Mandò il dattiloscritto al Gosizdat, la principale casa editrice sovietica, dove venne letto da Aleksej Dživelegov (su di lui c’è una voce nell’Enciclopedia Dantesca, mentre non c’è su Mandel’štam). Dživelegov era uno studioso soprattutto del Rinascimento italiano; Dante lo interessava per la diffusione che ebbe tra Quattro e Cinquecento. Era dunque lui l’esperto della potentissima Gosizdat, e certo per Mandel’štam un esempio lampante della «vuotaggine d’anguria della Russia» del tempo (Osip Mandel’štam, Sulla poesia, Bompiani 2003). Dživelegov restituì il manoscritto senza alcun giudizio esplicito: solo una selva di punti interrogativi ai margini del testo. Così glossato, venne rispedito all’autore. Quei punti interrogativi, a posteriori, ci appaiono come la migliore lode. Gli altri tentativi di pubblicazione non ebbero neppure quella risposta. Conversazione su Dante venne pubblicato la prima volta più di trent’anni dopo negli Stati Uniti. Mandel’štam era morto nel 1938 in un gulag di transito verso Vladivostok. Aveva 47 anni. Nella bella introduzione all’edizione Adelphi, Serena Vitale chiarisce il senso del rifiuto di Dživelegov e degli altri: «la Conversazione su Dante è una dichiarazione di guerra – ai noiosi scoliasti, ai “pedestri filologi”, agli estimatori del Dante “scultoreo”, “simbolico”, “misterioso”, ai fanatici ammiratori che della Commedia aveva letto soltanto qualche pagina. Guerra, soprattutto, alla “poesia” esplicita, descrittiva – quella che può essere riassunta, parafrasata». Avrebbe molti nemici anche oggi in Italia, Mandel’štam. All’opposto dei pedanti e degli imparaticci, Mandel’štam ci lancia in un’avventura senza protezioni: è poesia quella di Dante, come di tutti i grandi, proprio perché non è parafrasabile: mettere in prosa Amor ch’a nullo amato amar perdona è semplicemente un piccolo scempio, a cui si riducono le scuole di ogni ordine e grado sperando così di divulgare almeno il senso di quel verso. Forse sarebbe meglio niente. La resistenza alla poesia può essere giustificata perché «l’arte della parola distorce, letteralmente, il nostro volto, ne turba la pace, ne lacera la maschera»: chi ha bisogno di questo? – I suoi versi sono pieni di pensiero, e pensiero per Dante è afferrare al volo, cogliere le allusioni: «questo è per Dante il massimo elogio». La cosa affascinante è che proprio il Dante personaggio non è mai capace di questo. Nel viaggio tra i morti è piuttosto un inetto curioso: «bisogna essere ciechi come talpe per non notare che lungo tutta la Divina Commedia non sa mai come comportarsi, dove mettere i piedi, cosa dire, come salutare». Leggendolo, bisogna tenere quanto più possibile assieme tutto e allo stesso tempo auscultare ogni suono: «la poesia si distingue dal linguaggio automatico perché ci sveglia di soprassalto a metà parola – parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo –, e in quel momento ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino». Quante volte Dante balbetta di fronte alle continue sorprese dei morti? «Dante, io credo, studiava attentamente tutti i difetti di pronuncia e tendeva le orecchie quando gli capitava di ascoltare balbuzienti, blesi, voci nasali o persone incapaci di articolare certi suoni. Da loro deve aver imparato molto».

«È impossibile, impensabile abbracciare con lo sguardo o raffigurarsi concretamente questo poliedro dalle tredicimila facce, di una mostruosa regolarità». La cristallografia e la chimica organica potrebbero aiutarci più di tanta erudizione storica. La Commedia «non resta simile a sé stessa neanche per un attimo»; «Dante fa oscillare i significati, disintegrare l’immagine»; «un fisico che volesse ricomporre un atomo dopo averlo scisso assomiglierebbe agli adepti della poesia descrittiva e didascalica, per i quali Dante resterà in eterno peste e flagello»: eccolo il Dante quantistico. Per arrivarci, bisogna squarciare il velo che ci mette davanti agli occhi la sua stessa fama, «il massimo ostacolo alla sua conoscenza». Ed ecco l’ultimo koan: l’«incalcolabile» attualità di Dante viene proprio dal suo non essere del nostro tempo, e neppure del suo. Dante è ieri, e proprio ieri è quel tempo che «non è ancora sorto. Non è ancora stato veramente» (Sulla poesia), il che sarebbe piaciuto moltissimo al Walter Benjamin delle Tesi sulla storia.

 

Mario Apollonio

Storia della Commedia

Interlinea, 2013

  1. LVIII-677, euro 48,00