Carlo Levi, arte ed etica della politica
Il Ponte rosso N° 56 | maggio-giugno 2020 | Michele De Luca | testimonianze
Disegni satirici e dipinti in mostra a Villa Torlonia a Roma
L’antecedente lucano dell’odierna esposizione romana, nel 1975
di Michele De Luca
Carlo Levi ha fatto politica per tutta la vita, dagli anni Venti con Piero Gobetti (di cui, in una lettera del 27 febbraio 1922 a Natalino Sapegno ebbe a scrivere che «aveva educato una intera generazione»), successivamente aderendo al Partito d’Azione e infine indipendente nel PCI, ma come bene ha sintetizzato Filippo La Porta ha fatto sempre politica «benché con una mentalità felicemente impolitica», e cioè «non strumentale, non interamente finalizzata a vincere. Che poi significa, invece, una idea più ricca e più matura della politica. Nel 1929 sottolineava, a testimonianza di una robusta formazione kantiana, che il movente non era altro che una superiore coscienza etica».
La citazione è in uno dei saggi che introducono, nel catalogo pubblicato dalle Edizioni Giannatelli di Matera, alla bella e interessante mostra allestita nel Casino dei Principi a Villa Torlonia di Roma, intitolata “Carlo Levi e l’Arte della politica”, a cura di Lorenzo Rota, Mauro Vincenzo Fontana, Daniela Fonti e Antonella Lavorgna.
è la “chiave di lettura” più giusta e utile per accostarsi ai densi materiali esposti, tra disegni politico-satirici e dipinti di Levi, in questa esposizione, nata su iniziativa del Centro Carlo Levi di Matera e della Fondazione Carlo Levi di Roma, che propone una riflessione sistematica sulla ‘grafica politica’ realizzata da Levi tra il 1947 e il 1948. L’esposizione scaturisce dalla constatazione che nel mosaico delle diverse modalità di espressione artistica della poliedrica personalità di Levi (dalla letteratura alla poesia, dalla pittura al disegno), mancava la tessera di questo specifico universo creativo in cui più forte e visibile è l’intreccio tra arte e passione politica. I disegni in mostra raccontano, artisticamente e con fertile vena ironica, la inquieta e movimentata stagione dei primi anni della Repubblica. Con un “bagaglio d’immagini – ci dice Daniela Fonti, Presidente della Fondazione – che spazia liberamente dalla sintesi caricaturale alla composizione più meditata”.
Una seconda sezione della mostra propone un nucleo di una cinquantina di opere pittoriche riferibili al periodo cronologico 1932-1973, tra cui molti ritratti dei protagonisti dell’ambiente politico di quegli anni (tra cui Leone Ginzburg, Carlo Rosselli, Danilo Dolci, Manlio Cancogni, Vittorio Foa, insieme al commovente Lamento per Rocco Scotellaro) e ben cinque autoritratti. Della pittura dell’artista e scrittore torinese si è detto di tutto e di più; il merito della mostra è come si è detto, soprattutto, quello di far conoscere al grande pubblico il suo lavoro grafico, il cui valore specifico risiede nella sua forza di intervento “in tempo reale” sui (e nei) nei fatti della cronaca politica, con l’efficacia e la scarna essenzialità di un disegno, tanto da scrivere per lo più con pochi tratti di matita veri e propri “editoriali”.
A questo punto (e me ne scuso) la mia recensione si collega ad una bella e indimenticabile esperienza personale. La mente corre ad una lontana mostra allestita nella sala comunale del vecchio Comune di Sasso di Castalda (Potenza), a iniziativa del Comitato per Manifestazioni Culturali e Artistiche, nell’agosto dello stesso anno della scomparsa di Levi. Si trattava di una succulenta anticipazione del materiale iconografico che sarebbe apparso poi nel bel libro Contadini e luigini. Testi e disegni di Carlo Levi, a cura di Leonardo Sacco, che, per Basilicata Editrice, la Visigalli-Pasetti Arti Grafiche di Roma finì di stampare nel novembre del 1975. Fu proprio tramite il caro e compianto Leonardo che ebbi, da Linuccia Saba, la riproduzione fotografica di tutti i disegni che furono esposti nella mostra accompagnati da brevi didascalie essenziali, in quanto essi per la loro specificità esigevano di essere singolarmente contestualizzati nei momenti della cronaca politica del periodo a cui si riferivano. Tra i tanti visitatori della mostra ricordo in particolare, con tanto affetto e rimpianto, Rocco Mazzarone, il medico e scrittore di Tricarico, grande amico di Levi, di Manlio Rossi Doria e di Rocco Scotellaro.
Si trattava di un’autentica sorpresa in quanto questi fogli svelavano un lato pressoché inedito e sconosciuto, almeno al grande pubblico, e cioè quello di Levi elegante quanto acuto e caustico vignettista satirico, che, nel biennio 1947-48 pubblicava i suoi disegni “politici”, che come si direbbe oggi, erano dei veri e propri “editoriali”, sul quotidiano L’Italia socialista diretto da Aldo Garosci. Questi disegni – come annotava il curatore – concludevano la stagione azionista di Levi ed erano «in gran parte la base di molta sua pittura successiva: contenevano cioè un nucleo di fatti e un modo di rappresentarli che si troverà in tante sue opere famose», dal Narciso, che sarà ammirato alla Quadriennale del ’64, al grande “telero” Lucania, che venne esposto a Torino nel quadro delle manifestazioni per “Italia ’61”. Da questi schizzi rapidi e incisivi emergeva, nel loro complesso, un’attenzione quotidiana e minuziosa nello scorrere di quel lontano, difficile e per tanti versi inquietante biennio della nostra vita politica nazionale, il primo dell’era repubblicana, e nello stesso tempo il suo modo profondamente democratico e anti-burocratico di fare politica, che confidava soprattutto sul valore creativo, rivoluzionario dei movimenti contadini, autonomistici, di tutte le Lucanie del mondo.
Ma chi erano queste due “categorie” di italiani che l’autore del Cristo identificava nei “contadini” e nei “luigini”? è lo stesso Levi che ce lo dice, con estrema chiarezza e puntuale percezione “sociologica”, in un famoso passo del suo romanzo L’Orologio, da molti considerato come la sua migliore prova narrativa: «Le cose vanno chiamate con i loro nomi. Sono Contadini tutti quelli che fanno le cose, che le amano, che se ne contentano […] i Luigini sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte la sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure […] Mentre gli altri stati si preoccupano della Giustizia e dell’Uguaglianza o della Libertà, il nostro è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte, cioè, in parole semplici, per i Luigini. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato; e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte: i Contadini».