La città nel golfo di Boris Pahor
Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N° 56 | maggio-giugno 2020 | narrativa
La vicenda narrata nel romanzo, come spesso in Pahor, è un intreccio indistricabile di autobiografia e affabulazione
di Fulvio Senardi
La città nel golfo di Boris Pahor, uscito in sloveno nel 1955, ha avuto la sua prima traduzione italiana, per merito di Marija Kacin, nel 2014. Quando Bompiani ce lo rende finalmente accessibile la fama di Pahor è ormai consolidata anche in Italia: è un personaggio pubblico, uno stimato conferenziere in Italia e all’estero che vanta (come tutti i Grandi, e anche qualche minimo) la sua bella pagina su Wikipedia. La quale però, arrestandosi al 2013, non registra, nell’elenco delle opere tradotte, La città nel golfo, che è anche assente nella riflessione di Walter Chiereghin (cfr. Cronache dal cielo stretto, a cura di Charles Klopp e Cristina Perissinotto, Forum editore 2013), ciò che di più completo, a quanto ne so, è apparso su Pahor in italiano, se prescindiamo da interviste e autobiografie. Per altro, un intervallo di sessant’anni tra prima uscita e traduzione italiana configura un “caso letterario” sul quale è forse possibile riflettere. Ma non prima di aver visto il romanzo più da vicino.
La vicenda, come spesso in Pahor, è un intreccio indistricabile di autobiografia e affabulazione. Il protagonista, lo studente di legge Rudi Leban, è uno di quegli sbandati che l’8 settembre dissemina per le strade d’Europa. Liberatosi della divisa italiana, accolto da una famiglia del bergamasco, rifiuta di unirsi ai partigiani delle Orobie perché «lì non avrebbe potuto lottare per la libertà come invece avrebbe lottato sulla terra del Carso, lungo quel mare che ora è battagliero, improvvisamente rinnovato […]: il richiamo delle vie di Trieste è più forte. […] C’è un’atmosfera ch’è di rivolta e di tenerezza a un tempo come il canto di una madre, in un villaggio di pescatori, accanto alla sua neonata creatura» (23-24). Di tutto ciò veniamo a conoscenza dai pensieri di Rudi, che ritorna in treno verso casa, evitando per un soffio un rastrellamento tedesco alla stazione di Trieste. Si salverà riprendendo il viaggio in direzione opposta e dandosi subito alla macchia, per trovare ricovero in una casa amica nel villaggio sloveno di Prosecco, a pochi chilometri dalla città e in posizione dominante sull’azzurro specchio dell’Adriatico. Dopo alcuni capitoli mossi e vivaci, quasi da romanzo d’azione, il libro prende un passo differente, descrittivo-riflessivo, il modo più giusto per raccontare della presa di contatto di Rudi con quel mondo ormai in ebollizione, il mondo sloveno, di cui condivide tanto la rabbia per i decenni di umiliazioni subite (quando si è vissuti, sotto l’oppressione fascista, come «un mozzicone schiacciato nello sputo del padrone», 287) quanto la volontà di riscatto. Un mondo che ha saputo resistere alla snazionalizzazione e che sembra ergersi, nei villaggi di cui è cosparso il Carso e che trovano in Prosecco e nella contigua Contovello il loro simbolo, come «un baluardo grigio e austero» (179), una «fortezza carsica» (181) dove, insieme e grazie alle antiche tradizioni, hanno saputo conservarsi la lingua materna e lo spirito libero di un popolo umiliato ma non piegato.
I trapassi metaforici di cui Pahor abilmente si avvale per suggerire un’intima appartenenza delle persone ai luoghi, e dei luoghi alla lingua e alla cultura di un popolo, si dipanano lungo una linea tutta femminile donna-terra-patria (che, curiosamente, vale per lo sloveno come per l’italiano): «La nonna […] così vestita di nero e immobile, pare una mite statua antica, dalle mani sulle ginocchia. […] I solchi sulla sua fronte, le profonde pieghe screpolate ai lati della bocca e lungo il mento, sono invece sedimenti e rughe di un atavico struggimento. Sono screpolature calcaree, sono una zolla di terra solcata che a ogni minimo contatto si sgretola in un ghigno amaro» (182). A stringere un nodo indistricabile di valori, esperienze, sentimenti e ricordi che potenzia la consapevolezza identitaria di Rudi e lo spinge alla scelta più difficile: non quella di unirsi alla lotta partigiana, cosa decisa fin da subito, ma di farlo restando in città, dove maggiore è il rischio e la morte, in agguato, non è la morte libera con le armi in pugno sotto la volta del cielo ma un lento agonizzare dentro una prigione («la fine del gatto legato in un sacco e affogato», 178). Eppure, bisogna «rimanere in città. Non è necessario entrarvi trionfanti, dal momento che vi stiamo da sempre. […] È in città che dobbiamo risorgere dall’umiliazione, lì, davanti alla distesa di quel golfo azzurro. Essere ribelli, ora, sia in città che alla macchia. Cospiratori sui moli e sotto le vele» (254-255).
Eppure la città fa paura, perché «sono dodici secoli che vi scorrono il sangue e i fiori» (283), il sangue, pensa Rudi, degli sloveni inurbati (nella «fabbrica», Trieste, «in cui da secoli la gente slovena viene riciclata […] le danno un nuovo cognome e un nuovo nome e le pongono in mano la grammatica di una nuova lingua», 252), ed è lì che sono stati celebrate, con echi della più vile propaganda, plateali ingiustizie contro gli sloveni (i processi del 1930 e del 1941, che hanno colmato il cuore «di un’ira tremenda contro la sopraffazione», 127); una città verso cui sciamano le «donne triestine del circondario», per vendere i prodotti della terra, i fiori, il latte, accumulando dentro un «atavico risentimento per la vita che si vedevano costrette a condurre» (279), e dove – il pensiero è rivolto a una ragazza – «ti hanno educata inculcandoti un senso di inferiorità» (131).
Il femminile, appunto, uno dei temi preferiti di Pahor che, in questo romanzo così intriso di indignazione, di rabbia, di volontà di rinascita e di elegiaco sentire per la bellezza della terra slovena, prende anch’esso una curvatura patriottica. Da una lato Majda, la giovane di cui Rudi si innamora, dopo una giornata intensa passata alla vendemmia (con un dubbio sulla liceità dell’eros: «se l’amor patrio che ci unisce è pari all’alta marea, allora non è questo il momento per un piccolo, tenue amore», 215). Di essa lui ama la forza d’animo, l’ironia, la naturalezza, la frugalità, doti che ne fanno la compagna ideale, oltre alla maturità politica, temprata da esperienze che l’hanno segnata profondamente, come quella del carcere, che in sé non «è niente. […] Ciò che ti sconvolge è il disprezzo con cui ti maltrattano, il loro piacere sadico nel metterti in cella insieme alle prostitute catturate in città vecchia» (205). Dall’altro Vida, un personaggio cui spetta anche un valore simbolico, già solo per il nome che riprende il titolo di una famosa ballata di Prešeren di cui lei, slovena cresciuta nell’Italia del fascio, nulla sa e nulla le importa. «Majda», riflette Rudi, «rappresenta tutto: il legame con la terra natale, il sangue e la rivelazione, l’entusiasmo e la presenza di una compagna. Vida è però il superamento istantaneo di tutto il presente! Majda è il superamento tenace e audace, di tutti i giorni, di tutto il susseguirsi di ore. Vida, d’altro canto, rappresenta una vita senza limiti, un’opulenza sbrigliata». Ma se in Majda è facile riconoscere la vestale della causa nazionale, Vida è, all’opposto, figura del “non credente”: già sul punto di perdersi come l’omonima prešereniana, ma che Rudi spera di convertire ai valori della patria: «ti hanno educata inculcandoti un senso di inferiorità», riflette, «poi ti hanno ammaliata con lo splendore della magnificenza straniera» (131), una delle «ragazze che si perdono nella popolazione italiana» (69). E poi, intrecciando ambiguamente motivazioni psicologiche e messa a fuoco “biopolitica” della comunità-nazione (un tema per il quale è opportuno leggere Carlo Maria Banti): «sono geloso come lo siamo stati per ogni ragazza che lo straniero si è portato via, lo straniero che ci stava annientando. […] Geloso per tutte quelle migliaia di ragazze. Siamo stati gelosi perché i fascisti si gloriavano, a mo’ di macellai padroni, di poter scegliersi le carni migliori» (116).
Sangue e suolo, conservazione della razza difendendone l’integrità contro ogni marezzatura straniera: un’articolazione discorsiva che sta alla base della configurazione simbolica di ogni risorgimento (anche di quello italiano…), ma di cui si avverte qui in particolare un riflesso del cavallo di battaglia di molti polemisti sud-slavi: la non autoctonia dell’italianità est-adriatica. Dove il radicalismo nazionale di questo libro di Pahor esce meglio allo scoperto è nell’ultima parte del volume, che descrive una riunione di giovani partigiani, o sul punto di diventarlo, in una casa di Contovello, la “fortezza carsica”. Nel minimo spazio di una stanzuccia modesta si intrecciano discorsi di ribellione e valutazioni storico-politiche. Sul Patto di Londra, «che queste deliziose doline e questo terreno pietroso ha disseminato di teschi e di scheletri», 284 (il Patto di Londra, spieghiamo, assegnò all’Italia, nella prospettiva della dissoluzione dell’Impero asburgico, una fascia di territorio a nord-est di Trieste abitata esclusivamente da popolazioni slovene), il tradimento che «loro» fecero delle promesse sul rispetto delle minoranze, violando «la tradizione per la lotta per la libertà, tradizione che, della loro storia, costituisce il periodo più bello. […] Ci hanno tolto quanto, un secolo prima, l’Austria si era nemmeno sognata di togliere loro» (266). E poi, quasi conclusivamente: «Oh, avrebbero potuto mantenere la parola ed essere leali. Un popolo numeroso e di grande cultura non avrebbe dovuto temere la lingua di mezzo milione di persone. Ma forse è meglio così. Se si fossero comportati da persone civili, come avevano promesso, noi avremmo preso a amarli. Noi siamo di una tenerezza, basta una parola gentile e il nostro cuore abbocca come un pesce all’amo. Furono proprio gli incendi, le fucilazioni, gli internamenti a indurci a tener sempre vivo in noi il pensiero della libertà» (267). Un ragionamento perfettamente intonato allo stato d’animo di chi si appresta a morire per la patria, e che nel suo radicalismo (cui il narratore però sembra pienamente aderire) fonda una visione dicotomizzante, “noi” e “loro” (l’invasore) accettabile come registrazione di un’aspra sensibilità resistenziale (meno se pensiamo agli anni Cinquanta in cui il libro fu scritto e alle prospettive di una convivenza multi-etnica che la democrazia rendeva ipotizzabile), insieme legittima e ingiusta.
Sarebbe fin troppo facile aggiungere che mentre l’Italia discuteva il Patto di Londra, lo Jugoslavenski Odbor (il “comitato jugoslavo” degli intellettuali espatriati nei paesi dell’Intesa), senza alcun imbarazzo per il fatto che intanto sloveni e croati combattessero disciplinati nelle file dell’esercito asburgico, rivendicava il litorale adriatico fino all’Isonzo «delineando di conseguenza l’ipotesi di una Jugoslavia che avrebbe compreso un numero maggiore di sudditi di stirpe straniera di quanti concedeva all’Italia il Trattato di Londra» (Leo Valiani). Oppure osservare che quel popolo cui si ascrive la colpa di aver tradito la sua civiltà quando fu forzato a indossare la camicia nera, era lo stesso che, prima di piegarsi a Mussolini, aveva visto morire sotto la violenza squadrista centinaia di oppositori, e giornali, case del popolo, case del lavoro, cooperative, circoli culturali dati alle fiamme, proprio come il Balkan, negli anni della presa del potere del fascismo (cfr. per es. Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, 1922, 1963, ora, a cura di Paolo Mencarelli, 2019). Che sia stata tale visione parziale e partigiana di uno scrittore grande, ma, in quest’opera, maestro non sempre equilibrato, a consigliare di far conoscere La città nel golfo al pubblico italiano solo nel XXI secolo inoltrato? O è stato un pentimento dello stesso Pahor a frenare la traduzione, riservandola per anni più distesi? Solo l’autore potrebbe darci una risposta. Ad ogni modo il romanzo, prescindendo dalla sua notevole qualità letteraria, resta un importante documento della sofferenza di un popolo, della sua inestinguibile voglia di riscatto ma anche del pericolo della seduzione totalitaria anche presso coloro che si battono per una causa giusta.
Boris Pahor
La città nel golfo
traduzione dallo sloveno
Marija Kacin
Bompiani, Milano 2014
- 296, euro 19,00