Leggere per professione
dicembre-gennaio 2020 | Diego Zandel | Il Ponte rosso N° 52 | testimonianze
Leggere e giudicare i testi per un editore
di Diego Zandel
Per alcuni anni della mia vita ho fatto il lettore di professione per le case editrici, cioè colui che legge i testi che gli scrittori o aspiranti tali inviano alle case editrici con la speranza di essere pubblicati, testi sui quali dovevo esprimere un giudizio, riempiendo sostanzialmente una scheda comprensiva di sinossi, giudizio letterario e giudizio, grosso modo, di marketing.
Ho cominciato a farlo per la Mondadori. All’epoca, direttore della narrativa italiana era Alcide Paolini, che mi aveva conosciuto nella veste di recensore di libri per il quotidiano romano del pomeriggio Paese Sera. In particolare entrai in contatto con un suo redattore, Valerio Fantinel, con il quale strinsi una buona amicizia che dura tuttora, nonostante siano ormai diversi anni che se n’è andato in pensione.
Non ricordo se fui io a chiedere di fare il lettore o loro a propormelo. Sta di fatto che cominciai. Ogni settimana mi pervenivano due o tre dattiloscritti da esaminare. Arrivavano alla sede romana della Mondadori di Via Sicilia per mezzo del “fuori sacco”, come si usava dire, cioè plichi che non venivano messi nei sacchi postali comuni bensì a parte, con l’obbligo però sia dei mittenti che dei destinatari di provvedere essi stessi alla consegna e al ritiro presso le stazioni ferroviarie concordate. Pertanto, un commesso della Mondadori, con un apposito furgoncino, andava tutti i giorni alla Stazione Termini o Tiburtina, questo non lo so, a ritirare la ingente quantità di posta, plichi, copie di libri e quant’altro la Mondadori di Segrate inviava alla sede di Roma. Avvertito poi io dalla Mondadori stessa, passavo in giornata a ritirare il plico in portineria. Per fortuna, all’epoca, lavoravo al Flaminio e, pur con una deviazione, via Sicilia mi era abbastanza di strada sul ritorno dall’ufficio – lavoravo alla Stampa Aziendale della Sip – a casa.
Lo dico subito. Leggere dattiloscritti di narrativa era un lavoro affatto superficiale e, peraltro, pagato poco, ma che mi permetteva comunque di stare a contatto sempre con la direzione editoriale della casa editrice.
Tornando al tipo di lavoro, certo, la pratica ti permetteva di capire subito, dal tipo di scrittura, dal taglio del racconto, dalla capacità di delineare ambienti e personaggi se l’autore meritasse attenzione o meno. Per cui poi, dopo un certo numero di pagine iniziali lette attentamente, se la qualità della proposta appariva scarsa, si passava a quella lettura detta a cucchiaino, per cui cominciavi a saltare le pagine, soffermandoti a caso su alcune di esse, accorgendoti se il primo giudizio negativo fosse stato errato o la lettura malintesa, per cui era doveroso tornare indietro e riprendere le pagine là dove le avevi lasciate oppure continuare così a “mozzichi e bocconi” , come dicono a Roma, tanto per avere un’idea di massima della trama e del testo in generale, così da poter formulare un giudizio che mi permettesse di compilare la scheda di lettura con una certa avvedutezza.
Ora non so quanti dattiloscritti io abbia letto, ma tanti, tantissimi, di cui non mi è rimasta memoria di nessuno, a esclusione di due: Lo scudo di Talos di Valerio Massimo Manfredi, per il successo che il libro, sua opera d’esordio nel romanzo, ha avuto, così come in seguito tutti i libri di questo prolifico autore; e un libro del regista Luigi Magni, ambientato nell’antica Roma, del quale non ricordo il titolo, ma che mi è rimasto impresso in ragione della fama di regista del suo autore (il libro credo proprio che si trattasse de I sette Re di Roma, uscito nel 1996 per la Newton Compton).
A dire la verità, c’è un altro testo di quel periodo che mi ricordo, ma non per le sue qualità letterarie, bensì per il suo autore e le modalità dell’incontro. Parlo di Pino Pelosi, il presunto omicida di Pier Paolo Pasolini.
Il mio incontro con lui fu promosso da un mio caro amico d’infanzia, Gaetano De Leo, profugo da Pola, docente di criminologia dell’università La Sapienza, che aveva fatto parte del collegio di psicologi che avevano firmato il profilo psicologico di Pelosi per il Tribunale. Sapendo della mia attività di consulente per la Mondadori mi parlò di un testo che Pelosi aveva scritto di suo pugno relativamente all’omicidio di Pasolini, con risvolti anche autobiografici che forse potevano interessare l’editore. Io naturalmente avvertii Paolini che mi disse di procedere all’acquisizione e lettura del testo. Avvertii Uccio, come gli amici stretti e i famigliari chiamavano Gaetano De Leo, il quale ne parlò con Pelosi che mi telefonò per darmi un appuntamento.
Credevo che Pino, detto La Rana, fosse in carcere e pensai che il luogo dell’appuntamento sarebbe stato il parlatorio di Rebibbia, invece mi fece sapere che usciva tutte le mattina per rientrarvi la sera. Così stabilimmo di trovarci in Viale Regina Margherita, verso le 11 del mattino davanti al cinema Empire.
Arrivai con la macchina e lo vidi attendermi: era visibilissimo, non solo perché si era posizionato sulla strada al limite delle macchine parcheggiate, ma anche perché indossava un paio di pantaloni corti verdi e una maglia gialla, tipo nazionale brasiliana. Non appena gli andai incontro, chiamandolo, mi sorrise chiedendomi: “Che m’ha riconosciuto?”
“Beh, ormai sei famoso” gli risposi, tralasciando la sua coloratissima mise e dandogli la mano.
Decidemmo di prenderci un caffè al bar. Mi raccontò che lo facevano uscire tutte le mattine per andare a lavorare al forno dello zio. All’epoca Pelosi era ancora un ragazzotto, simpatico, sempre col sorriso sulle labbra, almeno con me. Mi diede il dattiloscritto che però vidi subito era molto breve per farne un libro: contava poco più di cinquanta cartelle. Ma se il materiale era buono, e confidavo francamente in uno scoop, in chissà quali rivelazioni, ci avrebbe poi pensato l’editore a farlo diventare un libro.
Pelosi mi disse solo che dentro ci aveva messo tutto. Poi ci salutammo. E lì avvenne la svolta che non mi aspettavo. Salii in macchina, che avevo parcheggiato un po’ prima del cinema Empire e, avanzando lungo viale Regina Margherita, con mia grande sorpresa, vidi Pelosi con altri quattro amici, ragazzotti come lui, salire tutti insieme in una macchina. In pratica gli avevano guardato le spalle, non rivelandosi a me, forse temendo chissà quale agguato. E questo mi intristì parecchio.
Comunque, lessi poi il dattiloscritto e, tralasciando lo stile privo di qualsiasi particolarità, neppure quella di rifarsi al suo simpatico romanesco parlato di borgata, non vi trovai niente che non fosse già emerso dalle cronache. Così compilai la scheda e inviai il tutto alla Mondadori, la quale condivise il mio giudizio e provvide a rispondere all’autore sottolineando in questi aspetti il motivo del rifiuto.
Una lettera che, al contrario di quello che succedeva normalmente, mandarono per conoscenza anche a me.
Un fatto, questo, del tutto eccezionale, perché noi lettori, almeno io, non sapevamo che fine facessero le letture, a meno che uno non fosse, ad esempio, Giuseppe Pontiggia, che della Mondadori era uno dei più ascoltati consulenti.
Col tempo ho saputo che, arrivata la mia lettura, quasi sempre ne seguiva un’altra da parte di un altro lettore (o la mia seguiva quella di un altro lettore) se le valutazioni contenevano elementi di positività. Di fronte a un comune consenso dei lettori, forse seguiva un’altra lettura ancora, magari al livello più alto, tipo quella di Pontiggia, se non addirittura quella del direttore editoriale.
Bisogna anche dire che all’epoca, non esistendo ancora internet e l’invio dei file, le case editrici erano sommerse dai dattiloscritti, per cui, con le forze di cui disponevano, non potevano leggerli tutti. Così la selezione era fatta sulla base di chi era il mittente o, se volete, il raccomandante, di solito persona di riguardo – uno scrittore importante, un ministro, un uomo politico, un giornalista e così via – al quale era fatto d’obbligo dover, comunque, rispondere se non altro per cortesia.
Porto un esempio personale. Il 17 gennaio del 1976, molti anni prima che diventassi loro consulente, ricevetti una lettera della Mondadori, datata due giorni prima, che mi scriveva:
“Gentile Signor Zandel, Fulvio Tomizza ci ha trasmesso il dattiloscritto del Suo romanzo dal titolo Una storia istriana.
Stia certo che esamineremo il testo con la massima cura, dopo di che Le faremo conoscere le decisioni editoriali che verranno prese in proposito.
Riceva intanto i nostri più cordiali saluti.”
Seguivano due firme o, meglio, due sigle non so se della segreteria o degli stessi dirigenti del settore editoriale, uno dei quali allora era il grande poeta Vittorio Sereni.
Ecco, sicuramente, quel 1976, dopo le letture di rito, la Mondadori si era sentita in dovere di dare, in merito all’esito del romanzo, una risposta a Tomizza, loro autore di successo che si era preso la briga di andare alla posta per me e inviare il romanzo alla propria casa editrice.
La Mondadori non ne fece nulla. E il libro, da me più tardi ampliato di altri quattro capitoli (accorgendomi solo dopo di quanto fosse stato esile) sarebbe uscito ben undici anni dopo, nel 1987, per i tipi della Rusconi, conoscendo un successo che avrebbe portato Una storia istriana a essere inserito tra la rosa dei primi ventidue romanzi del Premio Campiello 1987 e quindi nella terna finalista del Premio Napoli insieme a I fuochi del Basento di Raffaele Nigro e a El Paseo de Gracia del grande Mario Soldati.
Quindi, tornando al senso delle letture: oltre alla ricerca di un testo degno di essere pubblicato, queste avevano lo scopo di fornire elementi alla casa editrice per rispondere con precise motivazioni alle personalità che si erano spese per raccomandare un autore.
Questa pratica mi fu molto chiara in particolare quando, andato in pensione Alcide Paolini, alla Mondadori arrivò un nuovo responsabile, Antonio Franchini, che non conoscevo né mi conosceva e pertanto veniva in qualche modo meno quel necessario rapporto di fiducia che si instaura tra editor e consulente.
Passai pertanto alla Rusconi, grazie al mio rapporto con Raffaele Crovi, facilitato da una triangolazione con Antonio Spinosa del quale ero diventato molto amico e che lo stesso Crovi, in quel caso, nella mia veste di giornalista, mi aveva fatto conoscere in quanto autore per la casa editrice della fortunata biografia di Paolina Bonaparte. Ma anche Crovi, a un certo momento, se ne andò dalla Rusconi per passare alla Bompiani. Sta di fatto però che il nuovo direttore editoriale Ferruccio Viviani non solo mi mantenne come consulente, ma aumentò di molto la mia collaborazione tanto da essere ormai di casa presso la sede romana della Rusconi in via Bissolati. E anche quando fu la volta di un nuovo cambio qui, con l’arrivo di Roberto Giardina, con il quale strinsi una buona amicizia cresciuta nel tempo e che dura tuttora, continuai a leggere i testi per la Rusconi.
A proposito di memoria di testi letti, anche per la Rusconi me n’è rimasto impresso uno che poi è stato non solo pubblicato, ma che mi è valso il ricevimento di una telefonata da parte dell’autore, evidentemente informato dall’editore della mia consulenza relativa al suo lavoro: si trattava di Luigi Bisignani, che aveva scritto una spy-story alla Ken Follett dal titolo Il sigillo della porpora. Solo in seguito avrei saputo del fatto che Bisignani era, ed è ancora, considerato uno degli uomini più potenti d’Italia. Per questo credo che, indipendentemente dalla mia lettura positiva, il suo libro sarebbe stato pubblicato lo stesso e, a mio avviso, a ragione perché ci sono certi particolari autori, come appunto Bisignani, che vanno letti tra le righe, tanto addentro sono le segrete cose.
A un certo momento sentii io stesso la voglia di rallentare un lavoro che comunque mi prendeva molto tempo, sottraendolo a letture di libri veri e propri, ma d’altra parte mi dispiaceva anche lasciarlo, sia per quel poco che mi fruttava economicamente, sia per il fatto che mi consentiva di essere in contatto con la testa della casa editrice. Ma feci il passo e cambiai quando, frequentando con assiduità, come giornalista, la sede romana di via dei Greci della Bompiani, vidi la piccola pila di dattiloscritti che alcuni autori o aspiranti tali inviavano a quella sede invece che a quella principale di Milano. Così, d’accordo con l’allora direttore editoriale Mario Andreose e con la cara Cristiana Zegretti, la eccezionale ufficio stampa romana della casa editrice, che aveva lì il suo ufficio, cominciai a leggere i dattiloscritti che vi arrivavano, prendendomi tutto il tempo che mi serviva e senza più l’affanno di scadenze da rispettare.
Dopo di che, mollai.
La Zegretti passò alla Rizzoli, ci fu un tentativo di prendere io il suo posto all’ufficio stampa, tanto da avere un colloquio apposito con la capo ufficio stampa della Bompiani scesa appositamente da Milano, ma mi davano poco più della metà di quello che era già il mio stipendio alla Sip dove, quale responsabile della Stampa Aziendale, facevo un lavoro che comunque mi piaceva. Così, non se ne fece nulla, ponendo fine, per sempre – o quasi, perché ora l’ho ripreso quale editor di una piccola casa editrice – a un rapporto editoriale che le sue soddisfazioni me le aveva date, per altro costituendo un’esperienza professionale notevole.
Consideriamo che è un lavoro che altri scrittori hanno fatto. Abbiamo accennato a Giuseppe Pontiggia, ma non dimentichiamo che “lettore” è stato anche Giorgio Caproni (i sui giudizi è possibile leggerli in Giudizi di Lettore. Pareri editoriali, uscito per i tipi de Il melangolo) oppure Giorgio Manganelli.
Nel caso di quest’ultimo, diciamo che era più fortunato perché leggeva i libri in inglese, già pubblicati all’estero e, perciò, come dattiloscritti passati già al vaglio dei consulenti dell’editore di lingua inglese. Manganelli doveva pertanto solo valutare se farli tradurre o meno per essere pubblicati in Italia.
Le sue “letture” è possibile leggerle in L’impero romanzesco, edito da Aragno.
Dal 1960 al 1965 lesse circa un centinaio di romanzi. è rimasto nella leggenda il suo rifiuto di Nadine Gordimer, la quale, in merito ai racconti di Friday’s Footprint, fu da lui così liquidata: “Non è una grande scrittrice, a mio avviso, né una intelligenza o un occhio di singolare originalità: ma una narratrice decorosa e leggibile, non volgare, non fintamente complessa, misurata e non di rado sottile, anche dove il residuo di dolce che ci lascia in bocca ci mette sull’avviso. Pubblicabile senza disdoro, ma senza entusiasmi.”
Però era il 1961 e Nadine Gordimer avrebbe dovuto aspettare esattamente 30 anni , e scrivere tanti altri libri ancora, per meritarsi il Nobel (1991).
Mi chiedo qualche volta se mai, tra i tanti dattiloscritti che ho letto, sia capitato anche a me di sbagliare giudizio. Per quanto creda che, se un autore ha delle qualità, queste prima o poi si faranno o, se già pubblicato, si son già fatte valere. Gli esempi non mancano: uno tra tanti, Gianrico Carofiglio, che in una intervista al Corriere della sera ha raccontato l’odissea, costellata di tanti rifiuti, che ha preceduto la pubblicazione del suo primo romanzo, Testimone inconsapevole. Quanti scrittori di successo, come Carofiglio, conosciamo le cui opere sono state all’inizio rifiutate? Tanti. In pratica lo apprendiamo dalle biografie di gran parte di loro. Il peggio è stato solo per chi, come Morselli, è morto prima che il suo valore fosse riconosciuto. Ma destini come il suo si contano sulle dita di una mano.