Blues Brothers: al centro della musica
cinema | Il Ponte rosso N° 39 | Novembre-Dicembre 2018 | Stefano Crisafulli
di Stefano Crisafulli
Appena uscito di prigione, Jack Blues è accolto con (misurato) entusiasmo dal fratello Elwood Blues. Saliti sulla nuova ‘blues mobile’ (un’auto della polizia comperata in svendita), parte She cought the katy e chi guarda capisce subito in quale razza di film è mai capitato: si tratta di The Blues Brothers, bellezza. Segnato dalla rutilante regia di John Landis e dalla partecipazione ispirata (dall’alto…) di due scapestrati pazzoidi come John Belushi (Jack) e Dan Aykroyd (Elwood), vestiti di nero, con gli occhiali neri perennemente calati sugli occhi e cappello di eguale colore, The Blues Brothers è oggi considerato un cult movie. All’epoca -correva l’anno 1980 – il film non fu subito gradito dal pubblico e venne stroncato come eccessivamente demenziale, ma è proprio la sua demenzialità ad averne decretato il successo nei decenni a venire. D’altronde la storia è piuttosto esiziale: i due fratelli ‘in missione per conto di dio’ devono raggranellare cinquemila dollari per salvare un orfanotrofio. Per farlo, hanno deciso di rimettere insieme la ‘Banda’ e se ne vanno in giro, inseguiti da ex piuttosto vendicative, poliziotti, gruppi di neonazisti e chi più ne ha più ne metta, a recuperare i membri sparsi per Chicago. Ma, al di là dell’esile trama e degli spericolati e catastrofici inseguimenti, uno dei quali anche all’interno di un centro commerciale, ciò che conta, in fondo, è la musica.
Già, la musica. Una colonna sonora che è entrata di diritto nella storia del cinema, grazie a pezzi blues e rhythm and blues da ascoltare e da ballare, come Everybody need somebody to love, Gimme some lovin, Sweet home Chicago o la Minnie the moochie di Cab Calloway cantata in una scena del film dallo stesso Cab Calloway! Si, perché musicisti e cantanti sono anche personaggi interni alla storia: James Brown è un predicatore che smuove anime e corpi a suon di musica, Ray Charles è il proprietario di un negozio di strumenti musicali che si mette a cantare da par suo, facendo ballare il circondario, e la grandissima Aretha Franklin cerca di dissuadere il suo uomo, che vorrebbe tornare con la banda e abbandonare il suo lavoro in una tavola calda, cantando la mitica Think: indimenticabile quel ‘freedom’ urlato a tutta gola, mentre le sue pantofole friggono sul pavimento. E se poi John Lee Hoocker si mette in mezzo alla strada con la sua chitarra a strimpellare Boom boom, l’apoteosi è vicina. Ma non chiamatelo musical, perché qui non ci sono scene strappalacrime che vengono espanse artificialmente da canzoni altrettanto piene di pathos e la musica è parte integrante del film, anzi è il suo centro pulsante. Se poi questa musica è il blues e il rhythm and blues, che negli anni ’80 era stato ormai rimpiazzato da ben altri universi musicali, come la dance, il lavoro di Landis risulta ancora più meritorio, perché ne fece riscoprire alcuni tra i suoi più grandi interpreti, all’epoca stelle un po’ troppo oscurate.
Durante il concerto conclusivo, presidiato da tutti gli inseguitori in fila per arrestare e/o picchiare i due Blues Brothers, arriveranno anche i soldi, grazie a un produttore presente in sala. Partirà così l’ultima epica fuga, corredata di incidenti plurimi, carcasse di auto affastellate e, presso l’ufficio delle tasse che si trova in cima ad un grattacielo (dove sono diretti i due inseguiti per consegnare i cinquemila dollari), anche dall’intervento di, nell’ordine: uno sciame di poliziotti, svariati agenti dei corpi speciali, un carrarmato, un elicottero e persino reparti dell’esercito. L’orfanotrofio sarà salvo, ma i due fratelli andranno in galera, mettendo anche lì tutto a soqquadro con la loro musica. Dunque, un film anarchico, vitale, che non vuol essere niente di più che questo: e a volte è bene che sia così.