8 MARZO La signora delle traduzioni

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Un ricordo di Jolka Milič: per lei tradurre era semplicemente la sua vita

di Roberto Dedenaro

 

Chiedere a Jolka cosa fosse per lei tradurre, una domanda che non le ho mai fatto, sarebbe stato come chiedere a un pesce cosa sia nuotare, sicuramente qualcosa di talmente naturale che non ti accorgi nemmeno di farlo, ma anche, per lei, qualcosa conquistato con un duro lavoro. Un’altra sua passione,  che saltava subito agli occhi, se l’andavi a trovare, era la sua cura delle piante in vaso. Sì, perché andare a trovare Jolka a casa sua a Sežana, era un’esperienza abbastanza memorabile. Lei abitava sulla via principale di Sežana quella che tutti i triestini percorrono per raggiungere la meta delle loro spese low cost, dopo il valico di Fernetti; si entrava in un portoncino inaspettatamente moderno e ci si trovava in una sorta di giungla tropicale: erano appunto le piante di Jolka. Poi si saliva, tra le foglie,  al primo pianerottolo e si bussava ad una porta, quella vicina aveva scritto “Atelier”. Quando lei ti apriva, entravi in un appartamento che doveva essere anche spazioso ma che era completamente ripieno di libri, non solo su scaffali e tavoli ma direttamente sul pavimento, suolo da cui si alzavano stalagmiti di volumi colorati, come scrisse, una volta, in un articolo Renzo Sanson. Fra libri un tavolo con un computer sempre acceso e un tavolino dove, in corridoio, spostando libri c’era uno spazio per una tazzina di caffè: qualcosa di quello che ti offriva era d’obbligo accettarlo.

La prima volta che avevo letto il nome di Jolka Milič su una traduzione, era sull’edizione dell’Asterisco di Tullio Reggente delle poesie di Srečko Kosovel, correva l’anno 1971, l’età della pietra, ma lei aveva già pubblicato qualche traduzione su Umana di Aurelia Gruber Benco. Dai lontanissimi anni ’60 ad oggi sarebbe quasi impossibile elencare tutto ciò che Jolka ha tradotto in entrambe le lingue, italiano e sloveno, sia autori locali che classici della letteratura italiana e slovena; tradurre era semplicemente la sua vita, il suo mondo di rapporti che stava dentro a quel computer sempre acceso. Ricordo almeno le diverse  edizioni delle liriche di Kosovel, ma anche le traduzioni di Tomaž Šalamun e di Josip Osti, tra i nomi più significativi della poesia contemporanea slovena. Ma, ripeto, l’elenco andrebbe molto ampliato anche nell’altro verso, dallo sloveno in italiano.

L’avevo poi incontrata di persona, ai primi degli anni ’90 ad una edizione di Vilenica, a cui ero stato invitato, e poi non ricordo per quale specifico motivo, avevo, periodicamente, iniziato ad andarla a trovare a casa sua. Si parlava di qualche libro che lei voleva tradurre o qualche libro da portare a Trieste o qualche autore da conoscere, un flusso inarrestabile di autori e parole stampate. Nel suo lavoro poneva un’attenzione particolare per il significato delle parole, in un’intervista avrebbe poi detto come la scoperta che lo sloveno, la sua lingua materna, non fosse l’unica lingua al mondo, avesse suscitato la sua meraviglia di bambina. Le sue traduzioni così puntavano soprattutto a restituire il significato semantico delle parole, sacrificando, almeno in parte, i valori metrici e ritmici della poesia. Queste erano le sue caratteristiche da traduttrice, non pretendeva fossero le uniche, ma di fronte a qualsiasi perplessità, le difendeva con un’energia inesauribile.  Da molti anni si muoveva pochissimo, per varie ragioni, ma era informata su tutto, molti andavano a trovarla e le chiedevano di trovare un editore nell’altro paese, di pubblicare qualche loro testo su una rivista, o semplicemente un parere. Lei conosceva bene l’italiano perché aveva fatto le scuole italiane, era nata nel 1926, l’anno della morte di Kosovel, come le piaceva dire a sottolineare che anche la sua nascita non era poi così banale. Poi aveva fatto per lunghi anni la cassiera nel panificio di sua mamma in via del Lazzaretto Vecchio. Questa sua formazione un po’ bizzarra aveva suscitato spesso degli atteggiamenti snobistici nei suoi confronti, ma lei aveva da tempo capito che la sua vita era in salita e rimuoveva gli ostacoli con la forza di un trattore mentre l’arte, poesia, letteratura, scrittura era stata da sempre la sua compagna di vita. In altre parole aveva lottato come un leone per riuscire ad acquisire una credibilità letteraria, ma la scelta di stare dalla parte dell’arte era per lei l’unico modo, o quasi, di guardare il mondo, il mondo di un confine che a lei pareva sostanzialmente inesistente. La scritta “Atelier” si riferiva, infatti al laboratorio del marito, pittore e insegnante scomparso prematuramente, una volta fui anche ammesso all’interno di quella stanza piena di tele, e quadri del marito era appesi anche lungo le scale tra le foglie e gli steli ed inoltre già più di dieci anni fa aveva più volte ripetuto che in un giorno non lontano Sežana e Opicina sarebbero divenuti un’unica località.

Jolka Milič era ironica, spiritosa, graffiante, in una parola sola divertente, ma altrettanto sensibile ed emotiva, non sopportava le critiche e considerava forse il suo modo di fare,  il migliore se non l’unico possibile. Una volta avevo sotto mano una sua traduzione di una serie di poesie erotiche e mi pareva che le sue traduzioni non trasmettessero appieno la sensualità dei versi, presi così l’automobile e andai a trovarla per convincerla ad apporre qualche modifica. Dopo due ore me ne tornai a casa sorridendo: avevamo deciso di spostare un punto esclamativo dopo infinite e infinite discussioni, la cosa più gentile che mi aveva detto era: Ma da quando in qua sai, così bene, lo sloveno?

Credo che la traduzione, la poesia, la letteratura, lei stessa scriveva rime e prose, fossero per lei una forma di attaccamento, di vitalità, questo la faceva sentire autentica, come lo sono gli innamorati a cui non possiamo chiedere un parere equilibrato sulla persona che amano, ma di farci sentire la loro passione come una forma di autenticità, di identità, dell’essere umani. La forza indomabile di Jolka Milič, evidentemente, non era in nessun modo dovuta alla filologia, anche se aveva quella cura certosina delle parole, di cui abbiamo detto, ma il sentire che dentro alla letteratura ci poteva essere un riscatto e poteva capitare di far divenire la casa di Partizanska Cesta un piccolo centro del mondo, mentre lei accudiva la vecchia madre o era troppo vecchia lei stessa, per poter uscire. Alla fine, credo, abbia raggiunto in gran parte i suoi obiettivi e anche la sua scomparsa, alla fine di una lunga esistenza, se da un lato ci fa sentire una mancanza, dall’altro ci dà la sensazione di essere essa stessa la testimonianza di qualcosa di fortemente voluto ma anche realizzato.